Forse dipende da un’antica abitudine scolastica, ma settembre è un mese importante, che segna un passaggio – dalle vacanza alla città, dallo straordinario all’abitudinario. E,come tutti i passaggi, è una soglia critica che costringe a negoziare il rapporto con se stessi e il mondo. E a tracciare un rendiconto di ciò che è successo o non è successo nei mesi precedenti. All’esterno di noi sono accadute moltissime cose, spesso negative, molte che possono aver influito sul nostro umore, ma io voglio adesso concentrarmi su quello che è successo o non è successo al nostro interno. Abbiamo fatto i compiti delle vacanze, anche noi che non dobbiamo più tornare a scuola?
Io, nel mio piccolo, mi sono esercitata in due compiti, in due esercizi di precisione. Il primo: capire che cosa significa coltivare i ricordi come esperienza e non come nostalgia. Solo la trasformazione dei rimpianti in ricordi permette al vecchio professore Isak Borg, nel film di Ingmar Bergman, “Il posto delle fragole”, di aprirsi al cambiamento, di riconoscere la preziosità del rapporto con gli altri, di amare la vita anche nella vicinanza della morte. Per me è stato difficile, perché riemergevo appena alla superficie dopo una prima metà dell’anno particolarmente dura, in cui il mio corpo mi teneva prigioniera, era diventato lo stregone che imponeva delle regole e doveva tenere conto delle perdite. Perdita soprattutto dell’agilità, della capacità di camminare senza dolore, della spalla completamente bloccata in seguito all’uso delle stampelle… e soprattutto perdita di una speranza di ripresa (non torneò mai come prima…). Da qui il rimpianto per quello che ero, la rabbia, la frustrazione. Quei sentieri di montagna tra le rocce, quei lunghi percorsi nuotando in mare: tutto finito per annegare nella rigidità e nell’immobilità. E poi, un giorno, è successo un piccolo miracolo: mio figlio mi telefona dalla Grecia e mi dice che, insieme ai suoi figli, è andato a caccia di ricci. Mi ha detto: “so quanto ti piacciono, ma purtroppo non te li posso far assaggiare”. E in quel momento, invece del rimpianto per aver lasciato definitivamente dietro le spalle il piacere dei ricci, mi sono vista tra gli scogli che raccoglievo, spaccavo e mangiavo ricci e questo ricordo mi ha dato allegria, persino un po’ di felicità. Non rabbia, felicità. Piccola cosa, certamente e chissà quanti altri rimpianti e rabbie e frustrazioni avrò, ma ho capito che cosa significa e cercherò di tenerlo buono.
L’altro esercizio funambolico in cui mi sono esercitata è stato il provare a mettere in pratica quello che ho sempre scritto nei miei libri sulla vecchiaia: la capacità di chiedere.
Chiedere aiuto, chiedere compassione, chiedere sostegno. Particolarmente difficile sempre per le donne della nostra generazione, che sono state socializzate a dare, non a ricevere, guardiane occhiute della nostra autonomia…Non è affatto divertente chiedere un aiuto. Ma in questa difficoltà a chiedere c’è un elemento meno nobile, più spurio ed è una specie di delirio di onnipotenza che ci perseguita, per cui solo noi possiamo dare, rimediare, rattoppare, gli altri non lo sanno fare, quindi anche una sorta di sottovalutazione dell’altro, sottovalutazione anche del fatto che aiutare qualcuno può non essere così diverso dal ricevere aiuto da qualcuno. Perché con la spalla destra completamente bloccata, ero assolutamente incapace di fare certe cose, a cominciare dalle più semplici: svitare il tappo di una bottiglia di acqua, riempire di caffè la caffettiera, prendere una pentola o un piatto da un ripiano alto, cucinare. E così ci si affida agli altri, al loro buon cuore. Difficilissimo all’inizio, ma poi questa sensazione di resa e persino a volte di ostilità, perché segna il livello della propria impotenza, si trasforma lentamente nel piacere di riconoscere l’estrema gentilezza degli altri. Ho incontrato molte persone gentili, generose del loro aiuto e del loro tempo e questo davvero è stato prezioso, ha ridefinito persino una sorta di gentilezza verso di me. Bellissimo, difficilissimo. Ma solo se si accetta questo nuovo stato – l’ammissione della fragilità e la necessità di compassione ci si può aprire agli altri, al mondo.