“Ho ottantaquattro anni e sei mesi. Questi sei mesi li sto vivendo come se fossero anni. Rinchiusa in casa, con qualche piccola sortita per necessità, sono rimasta senza amiche, senza conferenze, senza cinema, senza vita sociale. Vado avanti da sola” dice una donna al primo incontro in un luogo pubblico, a fine settembre, con altre donne Manifestando, senza giri di parole, lo stupore e il dolore di sentire drammaticamente la solitudine della vecchiaia.
Vecchiaia? Forse è bene riflettere sulla metamorfosi di questa parola. Prima della grande catastrofe, era indelicato – di cattivo gusto? – chiamare vecchi i vecchi e vecchie le vecchie. La stessa parola – vecchiaia- faceva orrore e appunto dis-gusto. Anziani si poteva dire, senior si poteva dire, persino post-adulti, senza timore di cadere nel ridicolo. Improvvisamente, come in un repentino cambio di scenario, i vecchi sono diventati vecchi: deboli, bisognosi, vulnerabili. Ingombranti.
Perché la presenza devastante del virus e il modo-immorale, disumano- con cui lo si è messo in contatto con la vecchiaia (pazienza se muoiono i vecchi) ha sconvolto i nostri pensieri. Fin dall’inizio dell’espandersi del virus abbiamo dovuto confrontarci con la morte, con la nostra morte socialmente accettata – e persino a volte suggerita – , con la morte in solitudine, senza cari vicino, senza aver potuto vedere per l’ultima volta i nostri figli, i nostri nipoti, con la violenza tragica di un corteo di bare che correva anonimo sotto i nostri occhi. Potrebbero essere le nostre bare, abbiamo pensato. Abbiamo pianto sulle nostre possibili morti senza diritto al compianto, che è qualcosa che implica una collettività, una società, una polis.
Ma poi, lentamente, è emersa una verità: che quella morte era stata inflitta soprattutto a chi viveva nelle RSA, diventate improvvisamente non un rifugio ultimo, ma un mattatoio. Non avevamo veramente mai preso in considerazione l’ipotesi che questo ricorso alle RSA fosse qualcosa di auspicabile per noi, avevamo però indugiato nella speranza che potessero diventare qualcosa d’altro, più sopportabili, più vicine ai bisogni delle persone, più umane. Il coronavirus ci ha sbattuto la verità in faccia. Ci ha suscitato molte interrogazioni. Che continuano anche nella fase della ripartenza perché i vecchi rinchiusi nelle RSA sono stati dimenticati due volte: sono ancora lì, senza possibilità di un contatto con i familiari, se non sporadici e concessi solo recentemente. Soli. Per ragioni sanitarie ovviamente, ma dove sono finiti i diritti dell’anima? Il bisogno di sicurezza ha prevaricato sul bisogno di relazione.
Più di altri, più dei ragazzi, più dei giovani, più degli adulti noi siamo stati al centro della contraddizione: tra la dimensione securitaria e la dimensione vitalistica. Più protetti perché più fragili, ma anche più strappati da quel tessuto di relazioni vitali che sosteneva la nostra stessa fragilità.
E sosteneva persino la nostra fisicità. Lo sapevamo anche prima, ma l’abbiamo imparato – dolorosamente imparato – in questi mesi di Covid. Che cosa ci è mancato? Il parrucchiere, la ginnastica, l’estetista? Sì, anche, forse. Ma quello che più ci è mancato sono state le relazioni, il restringimento nei nostri confini corporei, il non poter abbracciare, toccare i corpi, il contatto. E questa mancanza ha agito anche sulle nostre cellule, ci ha fatto diventare più grigie, più rinsecchite, la forza vitale si è ristretta. Questo abbiamo capito: che è la qualità del rapporto con l’altro che nutre la vitalità e con lei la bellezza, anche per noi vecchie.
E adesso che sappiamo che non ci si salva da soli, sappiamo anche che il senso di questa salvezza è il porre la cura come valore centrale per la società. Cura di sè, ma anche degli altri, ma anche del mondo. Cura come concreta risposta al bisogno, come attenzione e come responsabilità. Non sarà facile perché in questo periodo abbiamo dovuto pensare l’Altro come portatore di morte e non come un essere umano con cui entrare in contatto. Non sarà facile ma sarà necessario..