Un esercizio di questo tempo: riuscire a restare nel proprio silenzio, sapergli dare un proprio senso

Pare un controsenso parlare del silenzio, ma come si può ignorare un argomento tanto attuale? Ancora una volta, prima e più di chiunque altro, sono gli artisti a saperne molto. Nel XIV° canto dell’”Orlando furioso”, Ludovico Ariosto personifica il Silenzio e lo riveste di un manto scuro.  In poeti come Leopardi o Pascoli, l’oscurità, l’oscurità della notte, accompagna spesso il silenzio. Anche Simon e Garfunkel, moderni trovatori più vicini a noi, in quella loro canzone degli anni ’60, “The sound of silence”, il suono del silenzio, legano silenzio e oscurità in modo che sempre emoziona chi ascolta.

Il silenzio, come l’oscurità, attrae e turba. Si crea spesso fra loro un legame che non sopporta l’indifferenza. Talora sentiamo il bisogno del silenzio, lo cerchiamo a volte, lo creiamo si potrebbe dire quando ne avvertiamo la necessità e poi ecco, all’improvviso, nostro malgrado, esso irrompe nella nostra vita.

Il frastuono quotidiano che ci accompagna, che a volte confondiamo con la vita stessa, si attenua fino quasi a scomparire e in ogni momento il silenzio si fa sentire, come in una notte che sembra non voler mai finire. In genere noi ammiriamo molto chi riesce a vivere nel silenzio, a farne uno stile di vita: attribuiamo qualità particolarmente pregiate, innanzitutto forza d’animo e coraggio morale, a scalatori di vette che ispirano timore ai più, a navigatori più o meno solitari, ad asceti ed eremiti che riescono a estrarsi in varia misura dal consorzio umano.

Saper restare nel silenzio é sapere restare per conto proprio, saper restare soli: soli con se stessi. Non é da tutti.

Si tratta di una prova che oggi é imposta a molti, soprattutto fra i meno giovani, ed é una fortuna che esistano questi straordinari mezzi di comunicazione che la modernità mette a disposizione. Non si tratta solo di contatti virtuali come si suol dire, perché potendo veicolare bellezza, sorriso, amicizia, come accade nel sito che abbiamo a disposizione, questi contatti sono di grande conforto come un raggio di luce nell’oscurità, una forma sonora, musicale, che popoli il silenzio.

Sarebbe probabilmente opportuno distinguere forme diverse di silenzio, almeno un paio, il che non esclude che ve ne possano essere anche altre.

Vi é il silenzio come assenza di parola, il contrario del parlare, un silenzio che può essere  creato volutamente.Vi é poi invece il silenzio come assenza di rumore, assenza del suono della vita: è il silenzio che può calare su di noi avvolgendoci, penetrandoci, al di là di ogni nostra intenzione come forse accade in questi giorni per tanti aspetti così intensi.

Sostenere la presenza del silenzio può permettere di ascoltarlo e, quando si diano le condizioni, forse perfino di dargli un senso, ognuno il proprio: a ognuno il suo silenzio.

Per uno psicoanalista il silenzio é, si può dire, pane quotidiano. Lo psicoanalista prende senso dal silenzio, lo abita e ne conosce le sfumature polisemiche, o almeno così dovrebbe essere. Lo abita, o lo frequenta, da almeno due diversi vertici. In primo luogo egli osserva il silenzio: restare silenzioso é un dovere perché la parola, il fatto di parlare, compete alla persona che viene in analisi, appartiene a lei.

La sola regola di un’analisi prescrive infatti che si dica tutto quello che si riesce a dire fra quanto viene in mente, il che equivale ad affermare: ”La parola spetta a te che ti trovi qui mentre a me, analista, tocca il silenzio”. A ognuno il suo.

Ognuno faccia la sua parte: é un impegno etico che in questi giorni viene continuamente ripetuto non senza ragione. Per quanto in apparenza così scontato, ci accorgiamo di quanto questo impegno sia difficile da osservare, forse come qualsiasi impegno.

In secondo luogo lo psicoanalista accoglie il silenzio come la condizione dell’ascolto: ascoltare per riuscire ad ascoltarsi. Sul divano (o lettino) dell’analista, il silenzio é una situazione unica e privilegiata. Esso riesce ad assumere contemporaneamente i due volti che abbiamo visto prima: da un lato viene meno la parola e dall’altro si mettono fra parentesi il rumore e le convulsioni della vita quotidiana.

Ci si accorge allora di quanto possa essere difficile sostenerlo: il suono del silenzio risveglia in noi un mondo inaspettato o meglio, aspetti inattesi del nostro mondo, ritorni imprevisti di esperienze normalmente attenuate nella miriade di percezioni che ci toccano in ogni momento. Ci giunge però anche un dono inatteso: può svelarsi ai nostri occhi il nostro stile di vita, il senso che noi diamo alla nostra vita non essendone sempre pienamente consapevoli.

Un esempio pertinente in questi giorni di vita così anomala e diversa viene dalla sorpresa di tanti che scoprono di avere una casa, un luogo dal quale si allontanano la mattina per rientrarvi solo la sera. Sorge una domanda: cosa rappresenta la casa e qual è il percorso per dimenticarne l’esistenza? E ancora: quale il prezzo di questa trascuratezza? Si potrà riparlarne.

Occorre una certa forza per sostenere questa situazione in sé assolutamente inusuale e quindi certamente traumatica. In genere, almeno all’inizio e come spesso accade, questa forza deriva da un rapporto. É il rapporto con l’analista naturalmente, il quale sa già cosa sta accadendo non perché sapiente, ma perché esperto, avendo già avuto a che fare egli stesso con il silenzio da analizzante, sul divano di un altro analista.

Questo rapporto serve sostenere l’angoscia del silenzio, soprattutto quando esso si prolunga quasi crescendo insieme all’impressione di qualcosa di oscuro che sta accadendo: é un rapporto vitale.

Siamo esseri relazionali e per questo motivo il fatto di sapere stare nel silenzio conferisce un pregio singolare a chi ne é capace. Esso indica che si riesce a mantenere viva dentro di sé la capacità di essere in una relazione al di là degli apporti sensoriali dei quali questa abitualmente si nutre.

L’analista, che lo ha già sperimentato su di sé, sa cosa accade: la persona sul divano cerca di parlare o, per meglio dire, emette dei suoni, in realtà cercando la relazione sensoriale. Quel parlare, al di là di quanto viene enunciato, non é una generica comunicazione, ma manifesta una preoccupazione ed esprime una richiesta: dimmi che ci sono, dimmi che esisto e che continuerò a esserci, smentisci questa angoscia di perdermi nel nulla che, poco alla volta, mi sta invadendo.

Ricordo sempre un aforisma che trovai  tempo fa non ricordo più dove e che mi pare contenga una parte di verità: qualsiasi essere umano che si risvegli alle tre di notte non può che essere terrorizzato. Un modo per indicare come sia giustificato il collegamento  fra silenzio, notte, buio, solitudine, vuoto. E paura.

Forse in questi giorni, a volte, ci sentiamo come se fossimo svegli nel mezzo di una notte? La situazione di cattività nella quale, certo in modo più o  meno rigoroso, siamo costretti, crea distanza, attutisce i suoni, crea silenzio e favorisce il ritorno di esperienze che normalmente sono diluite, e quindi attenuate, nella massa imponente delle nostre percezioni quotidiane.

É assolutamente necessario che quella risposta desiderata, richiesta, giunga a incoraggiare, a rassicurare: va tutto bene, andrà tutto bene. Questa formula, é giustamente riproposta in modo insistente in questi giorni e dà la misura dell’angoscia che infiltra la situazione generale in cui l’esistenza di ognuno pare minacciata.

É una formula utile per tutti, anche se non é detto che essa corrisponda alla realtà. In verità, chi può dire che tutto finirà veramente bene? Occorrerebbe almeno capire cosa possa essere questo “bene” verso il quale si starebbe andando e da dove deriva la certezza di poterlo raggiungere. Tuttavia il valore principale di questo messaggio rassicurante, che all’origine é quello rivolto ai bambini in difficoltà dai loro adulti di riferimento, i genitori e in primis la mamma, non vale tanto perché vero in sé, quanto perché é importante la persona che lo proferisce, che lo porge.

Una parentesi: da questo punto di vista le autorità che inviano questi messaggi che dovrebbero rassicurare non godono in genere di grande stima. Tuttavia, al di là della qualità dei singoli, occorre ricordare che tutti noi abbiamo cercato la mamma o il papà ma, inesorabilmente, incrociavamo nostra madre o nostro padre: sempre più o meno deludenti.

Principalmente non conta dunque il messaggio in sé quanto il fatto che esso venga dato come risposta alla domanda, al bisogno di essere rassicurati da parte di qualcuno che é depositario di un rapporto emotivo profondo.

In questo messaggio é contenuto qualcosa che possiede un valore essenziale: tutto finirà bene significa che non ci saranno prezzi eccessivi da pagare, che non ci saranno conseguenze devastanti e che alla fine tutto continuerà come prima ossia che il silenzio, il trauma, non spezzerà per sempre il nostro senso di continuità.

Per un piccolo bambino smarrito questa affermazione di continuità é assolutamente fondamentale: serve a tenere viva la fiducia e a non cadere preda dello sconforto.

Per un adulto invece le cose dovranno per forza andare diversamente perché il fatto che ognuno debba fare la sua parte significa pure che vi é sempre un prezzo da pagare e che occorre tenerne conto.

D’altronde, ascoltando l’informazione di questi giorni, il mantra della modernità, si constata facilmente come i due livelli del messaggio si sovrappongano: da un lato la rassicurazione che finirà tutto bene, dall’altro la richiesta che ognuno faccia la propria parte, ossia che paghi la propria parte di prezzo. Una cosa non esclude l’altra.

Tornando ora a occuparci del sentimento diffuso di minaccia alla nostra esistenza che in questi giorni singolarmente silenziosi sembra insinuarsi un poco dappertutto, se volessimo descriverne, anche sommariamente le forme, bisognerebbe tenere conto del modo in cui, seguendo le proprie caratteristiche, ogni persona declinerà le circostanze del momento.

A volte sembra che la realtà sfumi come in un sogno, che il tempo si deformi e anche la nostra realtà di soggetti viventi può farsi eterea, fragile, perdere di consistenza.

Sentirsi in pericolo, possibili vittime di un mondo pericoloso dove non ci si può più fidare di nessuno, stimola uno stato di vigilanza continua, talora estenuante, può dare luogo a tante manifestazioni per farsi coraggio a vicenda: cantare sui balconi o esporre la bandiera per esempio.

Può anche generare irritabilità la quale a sua volta potrà sfociare in irritazione aperta e spingere a risposte allarmate che si ripercuoteranno anche sui rapporti personali. Si tratta dell’espressione di esperienze arcaiche iscritte nel corpo ancor prima che nella mente e che spesso attraverso il corpo si fanno sentire in modo preponderante, come quando le cosiddette “crisi di panico” creano in chi le prova l’angoscia di essere sul punto di morire. Sono vicende correnti, che tutti noi conosciamo e delle quali non é difficile cogliere le radici e il senso. Conta relativamente poco che vi si scorga un residuo di antiche vicende di uomini preistorici terrorizzati nel buio profondo di notti il cui silenzio era rotto solo da angoscianti suoni misteriosi.

Pensiamo invece che oggi, nel nostro mondo occidentale, ogni nuovo essere umano che viene alla luce é sempre oggetto di una prima manovra ormai standardizzata che nessuno oserebbe più mettere in discussione tanto essa appare logica: questa creatura viene posta sul corpo della madre, sul suo ventre, quel ventre dal quale é appena uscita. Quale é il senso di questa manovra e in che modo essa si articola alla situazione silenziosa, questa situazione fortemente traumatica nella quale tutti siamo immersi? Questa manovra é un messaggio che non passa attraverso un apparato psichico ancora inesistente, ma si basa sul contatto fisico.  É un primissimo rapporto: senti, ascolta, tocca, la vita é questo, la vita ti accoglie.

Posto sul corpo materno entro il quale fino a poco prima si trovava, il neonato avverte qualcosa che non si può iscrivere in un sistema di pensiero ancora inesistente in quel momento, ma che passa come messaggio puramente sensoriale, messaggio di accoglienza e di conforto, di rassicurazione attraverso il tatto, la morbidezza della pelle, il calore del corpo, un messaggio che, se fosse verbalizzato suonerebbe press’a poco in questo modo: eccoti qui, ci sei e non sei solo, tocca con tutto il corpo, con la pelle e con la bocca, senti con tutto il corpo, il contatto, qualcosa che ti dice che esisti, qualcosa di amichevole, il compenso di quel drammatico evento che hai appena subito e che noi chiamiamo nascere.

In queste semplici realtà iniziali si può cogliere il senso dei rapporti umani, non funzionali, non subordinati a uno scopo, non come mezzi per ottenere dei risultati, ma come valori in sé, necessità dell’essere umano per vivere, necessità vitale quindi. In questo modo si presume che ogni neonato assuma dentro di sé il primo senso di un rapporto vitale.

Noi, esseri relazionali, abbiamo bisogno di relazione innanzitutto corporea: abbiamo bisogno di toccare e di essere toccati, di sentire e di sentirci. Quale é l’oggetto di una preclusione financo brutale oggi?

I giorni del silenzio sono percorsi da un altro messaggio martellante: non toccatevi, niente strette di mano, men che meno una carezza, aboliti abbracci e baci.Tenete la distanza: siamo, siete pericolosi e in pericolo. Restate chiusi dentro: dentro casa ma forse anche, per qualcuno, chiusi in se stessi come dietro una maschera protettiva. Una protezione costosa anche più di certe introvabili mascherine.

Come neonati espulsi nel vuoto di una realtà estranea, fredda, distante, rifiutante e quindi ostile, avvertiamo una sofferenza diffusa, palpabile, pervasiva ed evidente in tutti i modi in cui si cerca avidamente di avere un rapporto, un contatto. Nessuna meraviglia che questa sofferenza possa esprimersi in atteggiamenti difficili da capire al momento, ma capaci di provocare reazioni anche intense: dalla negazione di ogni pericolo al tentativo di trasgredire senza farsi notare, al comportamento noncurante in apparenza di chi pretende di continuare la propria esistenza come se vivesse in una sorta di bolla isolata. Siamo sottoposti a una messa alla prova come raramente se ne possono dare perché essa riguarda i nostri rapporti vitali, quelli che ci tengono in vita.

Tuttavia abbiamo anche una fortuna: unici fra gli esseri viventi noi possediamo un dono singolare che appartiene solo a noi. Se anche la realtà in sé é quella che é, né buona né cattiva, né troppa né poca, neutra e completa quindi, noi possiamo praticare la bellezza e forse con essa anche a quanto vi può essere di buono. Bello e buono sono la sostanza dei rapporti vitali, la catena dei quali sta in noi come fonte di pace e di conforto, anche quando il frastuono del mondo ci allontana da essi fino a farceli trascurare, a dimenticare che vi é una casa.

Forse vale la pena di ricordarsene ogni tanto.

 

 

 

 

 

Giorgio Landoni:
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