I segni del tempo, la decadenza progressiva del corpo provocano conseguenze: un certo dispiacere è comunque inevitabile per tutti
I segni del tempo: quando dobbiamo adeguarci alle modifiche del modo di vivere che i cambiamenti del corpo ci impongono, può capitare che ci sentiamo fragili e a disagio rispetto a quel “se stesse/i” che conoscevamo e che ritroviamo con fatica sempre maggiore.
Accade allora in noi qualcosa di cui spesso non riusciamo a cogliere con chiarezza il senso e sorge un interrogativo.. Mi è stato proposto di dare un punto di vista da psicoanalista sulla questione alla quale esso rinvia: gli effetti del trascorrere del tempo su di noi, esseri di materia, ma anche, diciamo, di spirito.
La vita è bella…
Così si intitolava un film di successo. Un altro, invertendo i termini, parlava della “bella vita”. Si arriva alla famosa dolce vita o, alla francese, alla dolcezza di vivere, tutti modi di affermare un senso di meraviglia rispetto al fenomeno del quale siamo protagonisti e che chiamiamo vita.
Comunemente pensiamo alla nostra vita come a qualcosa che si srotola nel tempo anche se, in fondo, di questo strano oggetto, il tempo, non sappiamo dire molto.
Dire del tempo è un modo per segnalare che la vita ci sembra fluire con una certa continuità naturale che in definitiva non attira la nostra attenzione più di tanto.
Tuttavia, quando con il trascorrere del tempo le prestazioni del corpo che abitiamo (e che siamo) si modificano, quando esse diventano poco alla volta altre e in definitiva più scadenti rispetto a quelle alle quali siamo stati a lungo abituati, si creano i segni del tempo, uno scarto fra il corpo e la nostra mente che delle sue prestazioni nota il decadimento. Uno scarto che si fa avvertire perché innegabile, un disagio che, più o meno intensamente, ognuno di noi incontra quando l’età avanza.
Per illustrare in modo più chiaro queste prime notazioni, riprendo i termini precisi nei quali il tema mi è stato proposto, i segni del tempo.
“Quante volte sentiamo dire: se dipendesse dalla mia volontà e dalla mia testa, farei tante cose, ma il fisico ormai mi impedisce di avere così tanta energia… Oppure: continuo a essere coerente con il mio modo di pensare, con i valori in cui credo, eppure mi capita di sentirmi più fragile nell’esprimerli, nel manifestarli, quasi che la mia vecchiaia mi porti a una sorta di disagio rispetto a me stesso. O ancora: non vado più a sciare per prudenza, se passeggio in montagna mi rendo conto che il fisico non è più quello di una volta, ma non so cavalcare l’onda di questo progressivo decadimento, più facile avere rimpianti che apprezzare quello che posso fare ancora……”.
Non si può esprimere meglio, mi pare, il senso di una progressiva divergenza che il tempo scava tra il corpo che abbiamo e che soprattutto siamo e quella “psiche”, come nominata nelle righe precedenti, dove tenderebbe a permanere invece il senso di una continuità, di una costanza di sé che la materia della quale siamo fatti, il nostro corpo, contraddice presentandosi come trauma, a volte perfino, drammaticamente, come rottura senza rimedio.
Si crea cioè una tensione fra il fatto di doverci adeguare a una realtà che vorremmo allontanare, come se essa ci dovesse rimanere estranea, e quello che invece siamo costretti a notare perché si impone da sé, oltre ogni nostra volontà.
Noi ci vediamo
Per discutere questa situazione, per cercare di vederne la costruzione psicologica che definisce i segni del tempo, che in fondo vuol dire soprattutto affettiva (non possiamo restare indifferenti a fatti che ci toccano così da vicino, anzi come più vicino non si potrebbe), partirei da una constatazione: noi ci vediamo.
Questa affermazione ha un senso duplice: in primo luogo essa dice che siamo esseri vedenti ossia che abbiamo un senso, la vista, uno dei cinque a tutti noti, la quale ci trasmette una quantità incomparabile di stimoli dal mondo esterno.
In secondo luogo, tuttavia, alcuni di questi stimoli riguardano noi stessi, partono dalla nostra persona: in breve fra quello che vediamo, ci siamo anche noi stessi.
Ci vediamo ha anche questo secondo senso.
Però, chi o anche che cosa, è ciò che vediamo? Questa è la domanda che sorge immediatamente dopo, in noi. Basta osservare la reazione di un bambino molto piccolo posto davanti a uno specchio per capirne la realtà.
Se vogliamo restare nell’ambito della nostra cultura tradizionale, quella dell’occidente, la Genesi ci fornisce una risposta:” E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza….”.”. E poi: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò……”. Dunque: vediamo un’immagine, ci vediamo come un’immagine, come una superficie, una cosa a due dimensioni.
L’importanza di questo fatto è fondamentale perché a un certo momento della nostra esistenza noi daremo un nome a questa immagine, la indicheremo come “Io”, essa cioè diventa “Io”, un indice e una conferma della nostra esistenza. Quella che all’inizio era solo un’immagine, una cosa a due dimensioni, assume in seguito una rilevanza di ordine superiore perché conferma che ci siamo.
Detto altrimenti, questa immagine che noi vediamo sia guardando il corpo nelle sue diverse componenti sia anche riflessa in una superficie esterna, uno specchio o la superficie dell’acqua per esempio, ci conferma che esistiamo. In questo modo, i segni del tempo, il sentire il nostro corpo, i segnali che esso ci trasmette, da luogo a qualcosa di nuovo, un’esperienza psichica, un affetto, quello di esistere al mondo, di essere vivi.
Noi consegniamo il senso di un’esistenza, la nostra singola esistenza, a questa immagine ed essa ci conferma che ciò che sentiamo ha una consistenza reale, materiale, quella dell’oggetto che vediamo, un corpo al quale diamo il nome di Io.
In realtà, se volessimo essere di una precisione tecnica superiore, che in questa sede non ha però molto senso, bisognerebbe dire che noi cominciamo ad accorgerci di avere un corpo non appena esso si fa sentire ossia quando, in qualche modo, ci trasmette un messaggio di disagio.
Il primo, in questo senso, è la fame a cui, di solito, qualcuno pone rimedio. Almeno si spera.
La notazione di un disagio, peraltro, non è ancora esperienza di esistere, ma solo una prima constatazione del fatto che qualcosa si fa sentire. Per poter attribuire quello che si sente a una sorgente, per dargli una causa, occorre essere provvisti almeno di un rudimento di apparato mentale, psichico o spirituale se si preferisce.
La sensazione del nostro corpo è un fatto reale, si vede
Dunque, la prima considerazione necessaria per ogni comprensione dei segni del tempo riguarda l’importanza dello sguardo, del fatto di vedere un’immagine di noi stessi, del nostro corpo. Essa ci dice che quello che sentiamo, il corpo, corrisponde a qualcosa di reale poiché lo vediamo.
Successivamente, se “Io” è in primo luogo un’immagine, l’immagine di quello che noi chiamiamo “corpo”, già dando questo nome all’immagine noi effettuiamo un’operazione particolare, non corporea, non materiale, ma un’operazione psicologica.
Essa indica che siamo in grado di staccarci dalla pura materialità della quale in origine siamo fatti, che stiamo diventando esseri umani capaci di compiere un’operazione che nessun altro vivente è in grado di fare. Infatti, dare il nome a una cosa, nominarla, significa darle realtà, farla esistere e quindi inserirla nella vita indipendentemente dalla sua presenza reale in quel momento.
Per fare un esempio: parlando delle piramidi egizie in genere ci riferiamo a qualcosa che non è presente sul momento, ma usando la parola noi trattiamo la cosa come se essa lo fosse.
È chiaro che si tratta di un’operazione molto complessa.
Essere è il verbo del soggetto che vive indipendentemente da ogni conferma dei sensi. Noi umani lo usiamo e questo che significa che siamo in grado di fare esistere qualsiasi cosa, anche quello che non c’è, il nulla per esempio. Quindi quando iniziamo a pensare “Io sono quello/a”, spostiamo noi stessi, il nostro sentimento di esistere, fuori di noi, fuori dei limiti del corpo in un’immagine che è presente solo nella nostra mente.
Ho già detto che affinché ciò possa accadere è necessario l’intervento dello sguardo e a questo punto qualcuno si potrebbe chiedere: e in mancanza della vista? Quando, come può capitare, questo senso è più o meno gravemente leso? Semplicemente vi sarà una diversa psicologia. Tuttavia parlarne ora significherebbe doversi addentrare in distinzioni che ci porterebbero oltre i limiti imposti dal tema attuale, per cui forse è sensato non occuparsene per il momento, pur tenendo presente la verità di questa osservazione.
Io, oltre il corpo
Dire che l’immagine che vedo mi conferma che esisto e che quindi posso dire “Io” ossia “sono come sono” significa che vi è una certa corrispondenza fra che quello che sento e quello che vedo. È certamente un passaggio abbastanza arbitrario, ma è così. In questo modo diamo un senso al nostro sentimento di identità, quello che appunto si esprime nella continuità, per esempio la continuità del modo di pensare, di vedere la vita, di apprezzare la realtà, di sperimentare il fatto di essere vivi in tutte le maniere che la nostra particolarità individuale ci suggerirà.
Da subito, però, sorge qualche problema, innanzitutto perché vi è sempre uno scarto fra ciò che possiamo e quello che invece vorremmo che fosse. All’inizio in genere non vi facciamo molto caso: se qualcosa “non va” ce ne facciamo una ragione, forse dopo una certa delusione o stizza, ma comunque consolandoci in qualche modo.
Col tempo, però, ci pare che questo scarto aumenti, poiché come qualsiasi materia anche quella del nostro corpo è soggetta all’usura mentre la “materia” spirituale (è un controsenso, me ne rendo conto) non conosce lo stesso tipo di deterioramento, pur essendo senza dubbio collegata alle nostre basi biologiche.
In altri termini: se da un lato vedo che il mio corpo si modifica nel tempo, che diventa diverso, come se diventasse quello di un’altra persona, la mia immagine, quella che in me chiamo “Io”, tenderebbe in fondo a restare sempre quella.
Naturalmente sto parlando di una situazione media perché è evidente che quando il cervello, il substrato biologico della mente, si deteriora progressivamente o bruscamente oltre certi limiti, la situazione cambia.
Intendiamoci: che la psiche, la mente tenderebbe “a restare sempre sempre quella” significa solo che le modifiche del mio aspetto che rilevo vedendole o quelle del mio corpo che sento provandole, mi creano un senso di disagio come se diventassi progressivamente sempre più un estraneo per me stesso.
In realtà sono io che, mentre da un lato incontro sempre meno occasioni di soddisfazione, dall’altro troverò sempre più difficoltà a procurarmi le consolazioni compensatorie che in precedenza erano più alla mia portata.
L’importanza per noi di saper trattare delusioni, mancanze e contrarietà della vita
Dunque una discrepanza sempre più evidente. Da un lato il corpo si modifica e l’immagine che vediamo conferma il nostro sentire che le cose stanno cambiando.
Dall’altro, anche se non siamo più la stessa persona come mostra la visione, lo sguardo, restiamo invece sempre gli stessi/e nel nostro sentire radicato nell’immagine che abbiamo e alla quale siamo profondamente legati.
La mente spingerebbe quindi a negare il cambiamento oppure ad assumerlo come un dato di fatto che non ha molta importanza anche se, purtroppo, esso finisce sempre per imporsi in un modo o nell’altro, indipendentemente dal nostro consenso.
Questa discrepanza mette in evidenza un fattore fondamentale che possiamo chiamare: il nostro livello di maturità affettiva oppure, detto in modo diverso, la nostra capacità di trattare le delusioni, le mancanze, le contrarietà della vita. Fra di esse dobbiamo mettere anche il passare del tempo, non fosse altro perché smentisce in modo inesorabile i sogni di eterna giovinezza che tutti ci portiamo dentro.
Quale capacità abbiamo di tenere conto di noi stessi, ma anche della realtà, delle due cose insieme, legandole, fra di loro, intendendo per realtà tutto quello che è altro da noi stessi, a partire dagli altri esseri umani, sempre più o meno deludenti per principio?
In genere, pur senza escludersi completamente, identità personale e realtà, nel senso appena indicato, sono in opposizione, e il fatto di riuscire a collegarle non è un dato biologico e neppure genetico per quanto se ne possa sapere oggi, ma ci deve essere infuso in qualche modo.
Cosa vuol dire questo?
Proviamo a pensarci.
Irrimediabile? Certamente no
Dunque da un lato mi dico che sono sempre io, che “…se dipendesse da me…”, mentre dall’altro noto che non sono più la stessa persona. Le modifiche del fisico, dell’aspetto corporeo, i segni del tempo me lo ricordano continuamente.
La decadenza progressiva del corpo che il nostro “Io” registra provoca conseguenze: un certo dispiacere è comunque inevitabile. Esso prenderà varie dimensioni: da quella di un senso di incertezza, di riduzione nella fiducia nei propri mezzi e nelle proprie capacità, a una lieve malinconia, a un sentimento di precarietà, che potrà arrivare fino all’angoscia di una rovina irreparabile.
A volte ci viene in aiuto la tecnica moderna supportando, a pagamento, il nostro bisogno di illuderci. Conosciamo bene la chirurgia estetica e sappiamo riconoscerne gli effetti, dagli interventi più semplici come i lifting che fanno scomparire, fino a un certo punto, le rughe, ai vari trapianti, agli interventi di ortodonzia che garantiscono un sorriso da star del cinema, fino agli interventi più complessi che tutti conosciamo anche se, in fondo, solo pochi affrontano. Fanno parte di un insieme salutista che, se anche ampiamente giustificato, può toccare estremi perfino ridicoli
Esiste, però, qualche antidoto che ci permette di non soccombere allo sconforto che potrebbe insidiarci di fronte alla constatazione della nostra caducità. Esiste certamente in noi capacità di trovare soddisfazioni alternative a quelle materiali, fisiche, soddisfazioni che impegnino la mente, l’Io come dicevo.
Qualcuno chiederà da cosa dipenda questa capacità, se essa sia innata o acquisita e quindi acquisibile da ognuno. Non è certamente il caso di pensare che vi sia un’unica risposta valida per tutti e in ogni circostanza, però la presenza in noi di ideali come punti di riferimento è un elemento importante per conciliarci con la constatazione della nostra caducità.
I nostri ideali tuttavia non sono innati in noi, né potrebbero esserlo vista la materia di cui sono fatti, aerea, trasparente, spirituale insomma anche se noi li sentiamo come qualcosa di molto solido, forte, una base stabile per vivere.
Gli ideali nascono e crescono in noi parallelamente alla capacità di accettare la realtà, di rinunciare progressivamente a volere essere noi la sola realtà che conti come accade ai bambini, di riconoscere l’importanza dei legami che stabiliamo e quindi di essere in grado di superare ciò che in noi vi si oppone.
Si tratta di un’operazione complessa, lunga, faticosa e spiacevole, almeno all’inizio. I suoi vantaggi non sono immediati, ma a lungo termine perché solo col tempo arriviamo a capire che è meglio avere degli ideali propri di riferimento che riferirsi a cose o persone prese come ideali perfetti.
Un poco come la scuola: molti preferirebbero non frequentarla se non vi fossero obbligati, non è vero? Solo col tempo scopriamo che può essere interessante imparare cose nuove, accorgersi di avere un’intelligenza, capacità umane, di simpatia che permettono di farsi nuove amicizie e che questo aiuta molto a migliorare la vita.
Qualcuno, dunque, deve aiutarci e chi può farlo meglio dei primi oggetti ideali della nostra vita, quelli che tutto sanno e tutto possono, quelli a cui ci riferiamo per forza perché costituiscono l’ambiente in cui siamo venuti al mondo dunque, spesso anche se non sempre, i genitori biologici?
La potenza del nostro ambiente di origine in questo senso è fondamentale, anche se certamente il patrimonio personale di ognuno di noi ha la sua importanza. A seconda del modo in cui le figure idealizzate di riferimento hanno saputo assumere la funzione genitoriale, di adulti che sanno interpretare le diverse situazioni della vita dal punto di vista dei piccoli, sarà possibile per noi riconoscere le nostre aspirazioni, coltivarle e appoggiarci a esse per realizzarci e così imparare a sostenere la constatazione, un poco malinconica, del tempo che passa.
In breve, dipende in larga misura da questo insieme di circostanze la nostra maggiore o minore possibilità di sperimentarci con un sentimento stabile di coerenza, di consistenza, come sostegno al piacere di esistere anche quando il corpo sembra annunciarci qualche dispiacere di troppo.
I segni del tempo non sono una tragedia. È solo vita.