Il film “Joker” pone il problema del male: cosa é il male, da dove proviene e che posto occupa nella nostra vita? A queste domande l’umanità ha sempre risposto che il male é ciò con cui nessuno vuole avere a che fare. Nessuno vuole essere considerato portatore di male, cattivo: cattivi sono in genere gli altri.
Cattiveria é un termine in cui spesso si confondono male e aggressività. Accusare una persona di essere aggressiva equivale sovente a darle una connotazione negativa, di persona cattiva, ma l’aggressività, di per sé, non é necessariamente segno di cattiveria. Quando miriamo a un obiettivo, quando cerchiamo di ottenere un risultato, occorre un certo impegno e l’uso anche di una certa aggressività. Lo stesso accadeà se ci opponiamo a qualcuno o se intendiamo comunque manifestare il nostro disaccordo, una nostra personale posizione autonoma.
Dire di no é certamente un segno di aggressività ma non di cattiveria. Occorre qualcosa di più. Lo si vede bene nei bambini piccoli. Quando un piccolo comincia a muoversi per conto suo, incontra una serie di ostacoli e di limiti che gli vengono imposti sia dalla realtà, sia dall’ambiente, dai genitori in primo luogo: lì vi é un ostacolo, là qualcosa sfugge a un tentativo di presa, vi é un divieto, e così via. La conseguenza é evidente: in poco tempo il piccolo, femmina o maschio che sia, inizierà a sua volta a manifestare un rifiuto. Dirà di no in vari modi, per il gusto del rifiuto e in maniera gratuita: scuotendo la testa, respingendo quello che gli viene dato, ignorando i divieti, senza una ragione apparente, ma trasmettendo comunque all’ambiente, ai genitori in primis, un chiaro messaggio: “Anch’io, come te, voglio avere un potere, il potere di dire di no”. In altri termini un piccolo sta dicendo: “Voglio diventare grande come te”. Molti genitori ne fanno una questione personale, ma si tratta di una sana aggressività che aiuta a staccarsi da un mondo fatto solo di pannolini e pappe.
Allora é una questione di misura? Il male é eccesso di aggressività? Forse: ma dove inizia l’eccesso e come qualificarlo?
Nel film una banda di teppistelli aggredisce in modo vile una persona manifestamente in difficoltà. Per difendere se stessa, questa persona avrebbe dovuto usare una violenza almeno pari a quella della quale era oggetto. Sarebbe stata cattiva? Sì, in un certo senso, ma chi avrebbe potuto disapprovarla? Manca qualcosa e dedicare qualche minuto all’odio potrebbe aiutare a capire.
Senza pretendere di esaurire una questione così spinosa come quella del male, vediamone qualche aspetto per formulare qualche ipotesi dal punto di vista psicoanalitico.
Un elemento di interesse della psicoanalisi consiste nel fatto che con le sue opinioni non si può costruire un sistema definitivo. Essa non si lascia ricondurre ai confini di un pensiero sistematico o di schemi precostituiti, non é una scienza accurata, ma ha molti aspetti simili alla letteratura se pensiamo alla ricchezza profonda e alla bella complessità che questa ci sa offrire. Nella letteratura abbonda la trattazione delle passioni umane che non sono state sempre viste al nostro stesso modo.
L’antichità greca le considerava come effetto di un intervento divino: l’ira di Achille non era qualcosa di suo, ma gli veniva dagli dei. Solo con la modernità si impone l’idea di una natura umana caratterizzata da qualcosa di primitivo. Le opere di Shakespeare o dei grandi autori francesi del ‘600 stanno a testimoniarlo anche se, forse, un inizio di riflessione diversa, più responsabile direi, possiamo trovarlo già in Sant’Agostino quando descrive l’odio nello sguardo del neonato che scorge un altro come lui attaccato al seno della madre.
L’odio é una di queste passioni, una nostra condizione strutturale. Non si può affrontare un discorso sull’essere umano prescindendo dall’odio. Esso ha un carattere più radicale dell’amore stesso.
In quanto passione primitiva, temuta e quindi disapprovata, l’odio non ha il posto che gli spetterebbe nella nostra considerazione abituale, ma la sua forza si impone oltre e contro ogni tentativo di negarne la presenza.
Il linguaggio tecnologico-moderno, obbligato dai fatti si direbbe, ha addirittura coniato un neologismo: hater, l’odiatore, una persona che semina odio.
Per seminarlo però occorre possederlo: chi ce l’ha e come mai? Da dove viene? Si tratta di cosa naturale, genetica come si dice a volte per coprire con un’etichetta la nostra ignoranza?
Ma poi cosa é questo odio che sta alla radice del male?
Il programma della civiltà impone di mettere un freno all’odio e con ragione perché l’oggetto dell’odio non é mai in fondo una singola persona quanto la stessa vita in sé e quindi chiunque di noi.
Lo aveva già notato per esempio Einstein il quale si domandava, e lo chiedeva a Freud in un carteggio famoso, come mai vi sia negli esseri umani una tendenza a odiare e quindi a distruggere, la quale, anche se normalmente latente, in circostanze particolari può venire alla luce in modo violento.
Il fenomeno degli haters, degli odiatori, ci dimostra con assoluta evidenza quanto questa tendenza sia diffusa e, si può dire, generalizzata anche se non tutti noi, per fortuna, ci lasciamo comunemente trasportare dall’odio. É logico però ritenere che tutti abbiamo avvertito la sua esistenza in noi almeno una volta nella vita.
Nel film l’odio si palesa in molte forme, a volte sfumate e ingannatrici, ma sempre evidenti nonostante tutto. E’ nel giovanotto azzimato che si vorrebbe divertire a un gioco vile e crudele infierendo sul debole, ma é anche nel collega del protagonista, quando gli si mostra falsamente amico; é nel capo ottuso e beffardo, ma é perfino nella madre, che ha esposto il figlio alla violenza di un suo mondo che ha finito per travolgere anche lei.
L’odio é anche nel protagonista il quale, quando si autorizza a manifestarlo, lo fa come un bambino che grida la propria volontà di non subire più. Lo fa in modo devastante, estremo e una volta presa quella strada egli non si arresta più, ma anzi trae un evidente piacere dalla propria esaltante potenza distruttiva.
Vi é modo di rendere gli esseri umani più capaci di resistere a questa inclinazione? Certamente e lo conosciamo tutti poiché si tratta dell’educazione.
L’educazione é il modo specifico di segnalare al singolo il biasimo della comunità quando certi appetiti primitivi, quindi violenti e malvagi, non vengono adeguatamente controllati.
Tuttavia l’educazione non estirpa il reale della nostra condizione. Queste inclinazioni continuano comunque a esistere dentro di noi e i moti primitivi che etichettiamo come male, quando venga meno la riprovazione sociale possono riprendere il sopravvento con facilità. E’ il caso della guerra: azioni che al singolo sarebbero normalmente vietate diventano permesse al gruppo e senza che alcun condizionamento culturale possa impedirlo più di tanto.
Tuttavia, se pensassimo che l’odio fosse qualcosa di innato, non ci sarebbe alcuna possibilità di intervenire in modo efficace su di esso: quale speranza vi può essere infatti di correggere, dall’esterno, una situazione scritta in noi come il colore degli occhi o dei capelli?
Dunque forse l’odio ha un’origine? un punto di inizio?
Pensiamo ancora ai bambini, a noi stessi come bambini quali tutti siamo stati. Quando un essere umano, piccolissimo, ancor prima di saper parlare vuole esprimere un rifiuto, per esempio quello del cibo che non gli piace, lo sputa, lo espelle, lo getta fuori da sé, lo butta altrove. Lo tratta come un corpo estraneo che non deve trovare spazio in lui.
Per la psicoanalisi freudiana questo é il paradigma dell’odio: ancora prima di essere consci del fatto che qualcosa esista, noi ne decretiamo la qualità, buona o cattiva a seconda del fatto che ci piaccia o meno.
L’odio nasce come espulsione del dispiacere che da lì in poi diventa l’estraneo e il cattivo, e il massimo dispiacere che possiamo provare é quello di constatare che la realtà non é sempre come la vorremmo, che non siamo noi i padroni di tutto, che non siamo tutto.
L’odio si accanisce su ciò che non ci piace e in primo luogo su quello che non rientra negli schemi, i nostri in primo luogo e che in questo modo da un lato rompe l’illusione di un mondo totalmente a nostra disposizione e dall’altro mette alla prova la nostra capacità di adattarci creativamente alla realtà.
Adattarci creativamente: non sottomettersi in modo passivo o conformistico, ma saper mantenere la propria identità viva e creativa anche in contesti che non ci sono totalmente familiari, che non ci piacciono per parti più o meno estese.
In genere, nella gran parte dei casi, noi riusciamo a contenere la tendenza a distruggere, ma essa, l’odio, resta spingendoci a volte a distruggere quello che non si piega per ripristinare l’illusione di un mondo completamente quale noi lo vorremmo.
Questa tendenza all’illusione persiste in noi al di là del tempo e quindi dell’età, oltre i limiti che abbiamo saputo porci con l’educazione, con la cultura, con l’esperienza.
Caino sfoga su Abele l’odio per una vita che non é proprietà sua, che sfugge continuamente al suo controllo, che lo confronta con qualcuno di diverso da se stesso e lo costringe a rinunciare all’illusione che tutto gli appartenga.
E’ il primo hater e gli haters sono coloro che mostrano una ferocia belluina nel voler annientare chiunque si presenti come diverso: come idee, come inclinazioni, come costumi, come gusti, come lingua, come colore. Anche come sesso.
A volte ci riescono. Non é la semplice antipatia che può riguardare il singolo: il bersaglio dell’odio é la vita con la sua eterogeneità.
E’ questa la ragione di certi delitti passionali, di certe contrapposizioni violente, da “tifosi”, di certe intolleranze alle quali siamo comunque esposti tutti, sia come oggetti, ma anche come soggetti. Eppure occorre aggiungere che anche l’odio é necessario alla vita, perché saperci fare con esso é la condizione necessaria dell’amore.
L’odio non é l’opposto dell’amore anche se può distruggerlo. Sapere amare implica quindi conoscenza dell’odio, significa avere appreso a temerlo e a metterlo a freno per ridurne il potere di ledere, nostro malgrado, anche ciò a cui teniamo.
Non é possibile amare veramente se non si é in grado di sostenere l’odio che ci può muovere dentro la presenza di un essere vivente (qualsiasi, anche figlia/o, coniuge, partner ecc.) che manifesti la propria esistenza autonoma, anche separata da noi quasi come un estraneo.
La psicoanalisi é impopolare perché da un lato sostiene che noi siamo animati da impulsi primitivi, brutali e che non scompaiono mai completamente, dall’altro che il nostro intelletto, la nostra razionalità, se anche necessari sono però molto fragili. Noi agiamo ora con prudenza ora con stoltezza a seconda di quello che ci impongono i nostri moti più intimi.
Tenderemmo a seguire le nostre passioni molto più di quanto non crediamo. É bene saperlo riconoscere per riuscire a padroneggiarle e impedire che altrimenti siano loro a impadronirsi di noi, con tutte le conseguenze del caso. Ce lo dice la cultura: perché mai i comandamenti che proibiscono qualcosa, per esempio “non ammazzare”, sarebbero così presenti in ogni tempo e in ogni luogo, se certe nostre inclinazioni non fossero molto forti?
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Articolo molto interessante, offre diversi spunti di riflessione che appaiono oggi più urgenti che mai.
Grazie per aver condiviso la scelta di questo tema difficile