Qualche tempo fa una signora mi raccontava della forte indignazione provata di fronte all’atteggiamento arrogante e in fondo anche un tantino stupido, di un giovanotto, per la presenza intorno a lui, ma neanche così vicino da giustificarlo in alcun modo, di alcune persone “di una certa età”. Presa da un impeto di collera, la signora si era rivolta al giovanotto in questione in modo fermo, deciso, ma contenuto, invitandolo a immaginare se stesso giunto a quella stessa età, se mai ci fosse arrivato. La differenza di stile delle due persone era senza dubbio anche il frutto della loro differenza di età. Ma in che misura?
I vantaggi della maturità
Detto altrimenti: l’età matura ha i suoi vantaggi, anche se si tratta di un collegamento che ha incontrato a volte un certo scetticismo, non sempre a torto. Per esempio, in una sua nota canzone, Fabrizio De André dice ironicamente che “….la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”.
Diverso Shakespeare: “Ripeness is all”, la maturità è tutto, dice Re Lear, forse la sua creazione più maestosa.
Considerazione un tantino lapalissiana: assumere che l’età porti vantaggi, come dato di fatto ammesso abbastanza comunemente, non esprime forse anche il bisogno di rassicurarsi, di consolarsi di fronte agli effetti del tempo che passa?Perché se il fatto di essere maturi è senza dubbio un vantaggio, non è detto che l’età non più giovane si accompagni automaticamente a maturità. Da questo punto di vista il tempo garantisce veramente molto poco.
Maturità è accumulo di esperienza di vita e questa competenza si acquisisce certamente nel tempo, ma non semplicemente a causa del suo trascorrere. Se così fosse tutte le persone di una certa età sarebbero da invidiare per la ricchezza che la maturità comporta, mentre è facile verificare come le cose stiano spesso in modo diverso. Vi è però indubbiamente un fondo di verità nel ritenere che l’età non più giovane favorisca un certo controllo di sé, una certa maturità di pensiero e, di conseguenza, anche di comportamento.
Come interpreta tutto questo la mia disciplina di riferimento, la psicoanalisi?
Qualche digressione sul tema
La questione potrebbe porsi in questo modo: il passare del tempo cambia il mondo. Quando noi invecchiamo, progressivamente esso pare sfuggirci di mano, modificarsi fino a diventare estraneo al nostro modo di sentire, oppure forse noi poco alla volta veniamo spinti ai suoi margini a causa dei cambiamenti che la realtà va subendo continuamente. La realtà del mondo si fa sempre meno riconoscibile per noi che in essa, quindi, a nostra volta ci riconosciamo sempre meno.
Quando si è giovani i cambiamenti sembrano essere il risultato della nostra stessa esistenza. La persona giovane sente di avere il mondo in mano e ritiene che sia veramente così. È certamente bene che le cose vadano in questo modo, almeno fino a che, abbastanza rapidamente ahimè, ci si accorgerà che esse stanno invece in modo molto diverso. Di sicuro noi possiamo contribuire in varia misura ai mutamenti della realtà, ma certamente li governiamo solo fino a un certo punto oltre il quale essi si impongono da soli con la forza dei fatti.
Può esserci a volte una certa supponenza quando si è giovani: sembra che nulla debba o anche possa opporsi alla volontà del singolo individuo. Questa supponenza però è solo uno dei lati della medaglia che, come sempre, ne possiede un secondo, probabilmente più importante. Giovinezza è dinamismo, energia, forza che spinge all’avventura, è ricerca per soddisfare una curiosità che si rinnova di continuo e che parla di una voglia di impadronirsi delle “cose”, di saperne di più forse perché si sa ancora troppo poco.
Il desiderio, che mantiene sempre giovane il mondo
La gioventù è movimento al quale diamo un nome: desiderio. Il desiderio, il movimento, è il mondo dei giovani, il mondo giovane. Si potrebbe dire che il desiderio mantiene sempre giovane il mondo. Riuscire a mantenere vivo questo dinamismo, il proprio desiderio, la curiosità, la propria voglia di interessarsi, è simbolo di giovinezza. In questo senso, anche se solo in parte, non è del tutto errato il detto secondo il quale si ha l’età che ci si sente di avere.
Con il passare del tempo è bene che questo dinamismo si modelli, che prenda forme diverse, come le prende anche il nostro corpo. Qui possono sorgere dei problemi perché vi è chi non riesce a smettere di pensarsi giovane e a pretendere di muoversi di conseguenza oppure, al contrario, può accadere che non riuscendo a indirizzare i propri moti in modo diverso ci si senta spenti. In genere, però, si può anche riuscire a trasferire in ambiti diversi il dinamismo della gioventù che fu. Questo dinamismo con i suoi moti sia interiori sia esteriori, è sempre forte, talora fino alla violenza poiché risente ancora, almeno in parte, di quella totalità estrema che caratterizza il/la bambino/a che ogni giovane è stato fino a poco tempo prima. É anche bene che sia così poiché: è la garanzia di poter andare oltre, di oltrepassare quello che già esiste, forse anche trasgredendo, ma riuscendo comunque a modificare la realtà.
Spesso chiamiamo progresso questa modifica dell’età matura che avanza: non è detto che sia realmente sempre così. Forse varrebbe la pena di sapersi accontentare del fatto che la realtà possa mutare, trasformarsi? Tuttavia, se il movimento del mondo giovane è impetuoso, gagliardo, trasgressivo, esso pone il problema della forma da assumere necessariamente per non ridursi a un turbine caotico dalle conseguenze non sempre gradevoli.
Come quando impariamo a guidare un veicolo ciò che importa non è il saper andare velocemente, ma il sapersi fermare. Tentare di descrivere alcune forme del moto equivale in fondo a evocare quello che veramente diventa necessario, una certa disciplina, una regola: ogni velocità ha il suo limite perché deve avere un limite. Maturità è anche coscienza del limite come condizione della vita.
Tendere verso la vera maturità
Conoscere l’ora in cui raggiungeremo eventualmente la pienezza di una maturità almeno soddisfacente se non assoluta, non ci è dato. Possiamo solo tendere verso di essa, maturare quanto ci è possibile. Neppure è semplice accettare che i segni del tempo appaiano sul nostro corpo a ricordare che la caducità della materia colpisce anche la materia della quale siamo fatti. La fortuna di cui godono attualmente tutte le pratiche estetiche sta lì a dimostrarlo.
Non è una questione di benessere: l’esercizio, fisico e mentale che aiuti a tenere lontano da noi il malessere, non è una cattiva idea. Diverso è, invece, voler negare i segni del tempo che equivale a cullarsi nella bella illusione dell’eterna giovinezza la quale, come sappiamo, solo alle divinità è data.
La maturità è un compenso per gli svantaggi indubbi della nostra caducità. Ma come possiamo raggiungerla?
Torniamo allora alla domanda: perché chiamiamo progresso il dinamismo che cambia il mondo?
Senza dubbio nell’idea di progresso è implicito un giudizio positivo. Forse noi riteniamo che il mondo evolva in senso positivo e certamente, se pensiamo ai miglioramenti introdotti nelle nostre vite dalla scienza (e dalla tecnica che la realizza) una visione ottimistica si impone. Non solo: anche se pensiamo a quell’insieme di realizzazioni culturali, artistiche, giuridiche che accompagnano le nostre vite e che vanno sotto il nome di civiltà (o di cultura se si preferisce) un senso di progresso è indubbio. A cosa è dovuto questo progresso? Come si realizza e quali forze positive permettono questa realizzazione? Non è una questione oziosa.
Esistono anche tendenze contrarie, incivili si potrebbe dire, che talora erompono in modo violento, pericoloso, distruttivo sia individualmente sia socialmente e ci sorprendono di continuo come se noi , in fondo, volessimo ignorarne l’esistenza salvo poi dover fare i conti con i loro effetti.
Immaturità è inciviltà?
Il prototipo dell’essere incivile è sotto gli occhi di tutti. Tutti lo conosciamo perché tutti lo incontriamo continuamente: lo chiamiamo “bambino”. Il bambino è il prototipo di quella situazione che noi chiamiamo incivile o anche primitiva supponendo, a torto, che i popoli primitivi non abbiano alcuna forma di civiltà o di cultura.
Riteniamo spesso, ma sbagliando, che un individuo primitivo non sia in condizioni di far funzionare il proprio cervello e quindi di evolvere. Se fosse vero non si riuscirebbe a capire come mai si possa passare da una condizione primitiva a una culturalmente più evoluta. Un conto è una situazione culturalmente povera, un altro le potenzialità del nostro cervello. Un conto sono le nozioni che acquisiamo nel tempo, un altro il funzionamento della mente.
La mente di Socrate o di Confucio non funzionava in modo molto diverso dalla nostra e in noi vi sono ancora oggi tutti gli elementi di magia, di superstizione, di credulità che esistevano allora. In definitiva è abbastanza ingenuo meravigliarsi per l’esistenza di persone che credono che la terra sia piatta o che attendono convinte il ritorno di Elvis Presley. È sempre stato così.
L’essere incivile è diverso, è altra cosa. Inciviltà consiste nell’assenza di freni. Non ricordavo a caso prima il limite di velocità.
Inciviltà è assenza di limiti nei confronti dei propri impulsi personali i quali hanno un solo scopo: la soddisfazione, il perseguimento del piacere personale.
Il bambino si muove secondo un principio molto semplice che si potrebbe enunciare così: “conta solo il mio piacere”. In origine noi non possediamo il senso del buono o del cattivo, del giusto o dell’ingiusto, del bene e del male, ma usiamo una sola distinzione, quella fra piacere e dispiacere, un principio che organizza la nostra esistenza.
Quello che piace a me va bene, è buono, è bello, è giusto, è mio e lo voglio. Ad ogni costo. Anche a costo del male degli altri, perfino della loro vita in qualche caso.
Al contrario, quello che a me non piace non va bene, è cattivo, brutto, sbagliato, non è mio, non lo voglio, lo caccio via, fuori, lontano da me. È l’estraneo, lo straniero, l’alieno cattivo e pericoloso per antonomasia. Questo principio regola moltissime situazioni della vita degli esseri umani e occorre una certa capacità di autocontrollo per evitare che esso mantenga troppo a lungo tutto il peso che aveva in origine.
Esistono adulti che funzionano ancora in questa maniera e allora dobbiamo fare i conti con diverse possibilità che vanno dalle manifestazioni di un egoismo fastidioso, ma in fondo abbastanza innocuo, fino alla logica del delinquente: o la borsa o la vita, che in fondo significa “se non mi dai quello che voglio ti uccido e me lo prendo”.
Per concludere…
Occorre partire da un presupposto: la psicoanalisi ha una visione assolutamente disincantata della realtà umana. Nasciamo egoisti, senza alcun valore etico originale, naturale.
Maturità è sviluppo di un certo senso del dovere o meglio della responsabilità ed è il risultato di un processo lento e progressivo al quale concorre in larga misura il contatto con altri esseri come noi. Tuttavia nulla ci garantisce che questo porterà a risultati soddisfacenti per un motivo molto semplice: incivilirsi significa rinunciare alla soddisfazione immediata dei propri impulsi, accettare un certo dispiacere. In questo ci aiuta il rapporto con ogni altro essere umano quello che, quando parliamo, diventa un “tu”.
Diventiamo esseri civili ossia sociali attraverso il “tu” . “Tu” è un altro me stesso, ma la sua esistenza ci pone un problema la cui soluzione non è per nulla facile.
Infatti, semplicemente con la sua esistenza, “tu”, un altro me stesso, qualcuno che è come me ma che non sono io, ci invia pressappoco un messaggio di questo genere: “se vuoi che io sia con te, se non vuoi restare isolato/a e rifiutato/a, devi accettare di esserci un poco meno, di lasciarmi un poco di spazio, anzi proprio un poco del tuo spazio personale cioè devi rinunciare a occuparlo tutto come hai fatto sino ad ora e come vorresti continuare a fare”. Questa rinuncia presuppone l’esistenza di una certa capacità di mettere un freno ai nostri impulsi immediati, un certo autocontrollo che in fondo significa rassegnarsi ad accettare una quota di dispiacere.
Se qualcuno conosce o ricorda le frequenti reazioni dei bambini piccoli alla nascita di un fratello o di una sorella, capisce di cosa sto parlando. Si tratta infatti di anteporre al proprio piacere un dato di fatto: la realtà non è mai come noi la vorremmo, non riusciremo mai a essere completamente soddisfatti, ci sarà sempre qualche impedimento a rammentarci che in fondo la vita è una scelta che siamo continuamente chiamati a effettuare.
“Non si può vivere solo della rinuncia”, ora penserà giustamente qualcuno. Anche i seguaci di una vita ascetica, monaci o eremiti, devono poter trarre qualche vantaggio dalle loro pratiche in apparenza povere e desolate o esserne comunque compensati in qualche modo. Dobbiamo pur ricevere qualche vantaggio per accettare di ritirarci un poco! Effettivamente vi sono dei vantaggi ma essi riguardano un piacere sostitutivo, diverso da quello immediato, materiale, pratico, corporeo, carnale sul quale si modellano tutte le forme di piacere che conosciamo.
Il compenso del disagio che noi sopportiamo per vivere insieme è costituito dagli effetti evolutivi di cui tutti beneficiamo vivendo in società: riassumendoli in una sola parola si tratta dei benefici della cultura (o anche la civiltà se si preferisce). I suoi effetti compensatori potremmo riassumerli sotto il nome di “realizzazioni dello spirito”, opera di quel complesso di caratteristiche che chiamiamo intelligenza come sono l’arte, la filosofia, la religione, la scienza. Chiamiamo cultura l’insieme di queste realizzazioni e da esse riusciamo a trarre quel piacere che compensa quello a cui rinunciamo mettendo un freno alla nostra personale, giovanile impulsività.
La maturità sa godere di piaceri più raffinati, riesce ad avere anche piacere in modo più raffinato, meno immediato, più modulato e prolungato di quanto non sia possibile quando ci basiamo unicamente sul corpo e sulla sua vitalità.
Ma per forza di cose la cultura porterà in sé anche la traccia di quella rinuncia che le ha dato origine, un certo disagio che non si potrà mai cancellare. Esso è però anche il motivo per cui la cultura si può trasformare ma non si spegne, continua senza fine.
Freud, che amava citare Shakespeare di cui era un grande cultore, sosteneva che la più alta impresa psichica possibile all’uomo fosse quella di riuscire a soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale ci si è votati.
E la società è ben consapevole di tutto questo: in genere coloro che le procurano vantaggi derivanti dagli effetti delle proprie rinunce personali per dedicarsi a obiettivi comuni, godono giustamente di grande prestigio presso la collettività umana.