Il dolore dei bambini (e del bambino che siamo stati). Un dolore che dobbiamo imparare a gestire

È il dolore della vita in sé, che noi prendiamo semplicemente come un dato di fatto. Crescere significa imparare ad assorbire le avversità. Altrimenti il dolore diventa una minaccia effettiva alla nostra esistenza

Scoprirsi esseri minuscoli nel mondo che sta là fuori, un mondo che, mano a mano che andiamo crescendo (e sempre meno confondiamo le nostre fantasie con la  realtà), si fa sempre più lontano da tutto quello che credevamo e che vorremmo, fino a poter apparire irraggiungibile, causa un dolore che accompagna la scoperta infantile che la vita è a disposizione ma non è disponibile. Detto altrimenti: bisogna darsi da fare perché la pappa non è sempre pronta.

Questo antico dolore, o dolore antico, ci accompagnerà per sempre, anche se raramente ce ne rendiamo conto. E’ una componente fondamentale della vita sin dalla sua origine, il nome che poi daremo a ogni nostro turbamento somatico o psichico. Meglio tenerne conto e imparare, poco alla volta, a governarlo.

Il dolore dei bambini: episodi di piccola quotidianità che confermano

Andavo un giorno per la mia strada, quando incrocio una coppia, due persone giovani e un piccolo bambino, poco più di due anni a occhio e croce. Essi lo tengono per mano, fra di loro: la madre ne tiene la mano destra con la sua sinistra, il padre tiene la sinistra del piccolo nella sua destra. Questi cammina, dunque, in mezzo a loro, la situazione più felice perché la più sicura, per ogni bambino.

Ma i due adulti stanno litigando. Le loro voci dure, impietose nel passeggio irato (chiedo scusa per l’ipallage, mi è uscita così) non tengono conto di chi le sta ascoltando suo malgrado: il piccolo figlio. Il quale, evidentemente angosciato e spaventato (ma non per loro accecati dall’ira), ora porta le mani dei genitori alle orecchie quasi per rendersi sordo a quel fragore minaccioso, ora le congiunge davanti a sé, come per implorare la fine della lotta e il ritorno a un legame sicuro che le passioni sembrano poter infrangere.

Lasciato all’episodio il suo senso di semplice occasione per il pensiero, veniamo al dunque: cosa succede a un bambino, e tutti noi lo siamo stati una volta, quando è costretto suo malgrado a riconoscere quella che si può chiamare “la differenza”? Riconoscere che il mondo, la realtà, non è solo il nostro bel sogno, ma può anche essere l’incubo che si realizza quando ci svegliamo, che le illusioni si rivelano tali quando la realtà quotidiana reclama il diritto di esistere, che ci sorprende e ci fa parlare di essa come “dura”, non è sforzo da poco.

E ancora: cosa ci accade quando siamo obbligati nostro malgrado a prendere atto del fatto che le cose non vanno come vorremmo, che il mondo ideale, tutto buono con e per noi, che ci assicura la buona dipendenza da qualcuno onnipotente come solo i genitori possono essere all’inizio della nostra vita, è destinato a svanire? Quando ci rendiamo conto che esistono oggetti diversi nel mondo, diversi rispetto a noi stessi e alle nostre attese, oggetti che quasi reclamano il diritto alla propria diversità?

Allora noi, bambini presenti, passati e futuri, possiamo sentire questa pretesa della realtà come qualcosa che distrugge le nostre attese, che ci costringe, nostro malgrado, alla angoscia di non essere più riconosciuti, di essere come estranei a quel mondo che, fino a un momento prima, pareva esistere solo in funzione nostra. È il sentimento di una catastrofe.

Il dolore dei bambini: come uscire dal bozzolo delle certezze rassicuranti

Una situazione inevitabile perché, alla fine, è fatalmente necessario uscire dal bozzolo delle certezze rassicuranti. Qui sorgono alcune questioni psicologiche e poiché nessuna disciplina si occupa della psiche in modo così profondo come la psicoanalisi, permettetemi di lasciare il posto allo psicoanalista, con le precisazioni con le quali proseguo.

L’idea di essere al centro di tutto è sempre presente in noi sia come individui sia come specie umana. Un esempio che tutti conoscono è quello di ogni innamorato/a: almeno fino al momento in cui la realtà metterà in chiaro le cose. Si tratta di un dato della specie umana, riguarda il nostro modo di costruire la realtà. Riguarda tutta la realtà e possiamo mostrarlo.

Il dolore di deludere l’egocentrismo sul quale si fonda il nostro sentimento di identità

La fisica quantistica, che tanta parte ha nelle nostre vite quotidiane, incontra la massima parte delle opposizioni alle sue ipotesi per tanti versi sconvolgenti non tanto fra gli estranei quanto all’interno del mondo dei fisici stessi, gli scienziati moderni per eccellenza. Una delle ragioni di questa opposizione, quella che tutte le riassume e che quindi non ammette contraddizioni, consiste nel fatto che se qualcosa delude quell’egocentrismo sul quale si fonda in buona parte il nostro sentimento di identità, ci sarà una reazione legata al sentimento della identità minacciata.  Questo vale anche per lo scienziato più rinomato, quello che dovrebbe essere immune da certe inclinazioni vanitose. Questo vuol dire che ciascuno di noi è solo uno dei tanti, e la cosa non passa in modo indolore.

L’egocentrismo è un dato fatale, inevitabile anzi necessario per vivere, anche se è un limite alla comprensione della realtà. Per questo quando sento qualificare qualcuno un “narcisista”(come spesso accade per dare un senso negativo a una personalità), mi viene da sorridere: il narcisismo, l’amore di sé insomma, è assolutamente necessario nella vita. Altro è il fatto che esso rimanga al livello di quello di un lattante, ma questo è un altro problema.

Ancora un esempio: sino a poco tempo fa si diceva che le stelle e le galassie si allontanano. Ora si dice invece: lo spazio, l’universo si espande. Un conto è dunque dire che tutto si allontana da noi come se noi umani fossimo il centro di tutto, un altro è dire, invece, che siamo solo parte di una danza alla quale semplicemente partecipiamo come invitati. Dicendo che l’universo si espande diciamo anche che il tempo e lo spazio sono nostre creazioni, della nostra mente, non esistono di per sé, ma queste creazioni ci sono necessarie per dare un senso alla nostra vita, costituiscono anche un limite assoluto alla nostra possibilità di comprendere. Ora tutto questo non si capisce se non si fa riferimento a un’ipotesi che caratterizza la psicoanalisi e che si chiama inconscio, un luogo indefinito, ma che si fa sentire, dove appunto tempo e spazio non esistono e dove noi siamo sempre bambini e lì, se le circostanze lo vogliono, possiamo tornare.

I sogni, nella loro bizzarria, ce ne forniscono un esempio.

Il dolore? E’ il malessere che turba il nostro equilibrio

L’inconscio è una pura ipotesi che serve a dare un senso a quello che altrimenti verrebbe scartato con fastidio come qualcosa che non ha diritto all’esistenza. Noi ci portiamo dentro un sorta di crogiuolo dove si fondono fino a scomparire tutti i principi di quella razionalità che, nella vita di ogni giorno, prendono l’aspetto dei parametri spaziotemporali nei quali ci pare di muoverci. E poiché lì sta, lì noi possiamo tornare.

In questo crogiuolo vige un solo principio: tutto è possibile. Non esiste contraddizione, non esiste differenza, non esiste distanza di tempo né di spazio. Tutto è unificato in un involucro di cui facciamo parte e che è parte di noi. È l’universo della onnipotenza di partenza dove nulla che ci possa turbare ha diritto di esistere. È il mondo della nostra origine e anche se noi cresciamo, o almeno auspichiamo che così accada, non per questo quel mondo non è mai esistito e in quanto tale esso non può essere annullato.

La questione  di fondo è allora: come cresciamo? O ancora meglio: che cosa è crescere e cosa favorisce la nostra crescita? Il cibo si dirà: bene non vi è solo il cibo per il corpo, ma anche quello per la mente e per i sentimenti. Avere a che fare con una catastrofe implica qualcosa di doloroso: direi che non vi è alcun dubbio su questo. Vale anche per i piccoli dolori infantili poiché piccoli essi non sono mai, se consideriamo che riguardano degli esseri minuscoli nel corpo e quasi inesistenti per quella nostra parte speciale e specifica che chiamiamo in varia maniera: anima se sacerdoti, spirito se filosofi, psiche se psicologi e mente se psicoanalisti.

Piccoli esseri che ancora non sono in grado di rendersi conto di cosa sia quello che stanno sperimentando in una forma che li assale e li pone in una situazione di impotenza: per esempio quando si rompe qualcosa che hanno lasciato cadere inavvertitamente, oppure se non trovano qualcosa a cui tengono o ancora se tarda a manifestarsi l’adulto che è responsabile della loro esistenza. In questi piccoli esseri però il dolore è ancora parte del corpo, anzi si identifica con il corpo. In un bambino di pochi mesi non vi può essere una sofferenza psichica ma essa si ricalca sul malessere somatico: duole il pancino o la gola, si tendono i muscoli e si inarca la schiena.

Ecco noi modelliamo l’idea del dolore a partire dal male fisico e “dolore” diventa la parola con la quale designiamo ogni forma di malessere che turba il nostro equilibrio. L’espressione “dolore dei bambini”, nella mia intenzione, serve a indicare la genesi, l’origine e la storia di quello che poi chiameremo in questo modo.

La catastrofe che segna il dolore dell’anima

Per un bambino molto piccolo (manca in italiano quella parola di genere neutro, kid o kind, che possiedono inglese e tedesco e che serve per designare, equiparandole, le persone neonate al di là delle differenze anatomiche), per un lattante, dunque, diciamo fino all’età di un anno circa, la mancata presenza dell’adulto, in definitiva quella che si chiama “mamma” all’inizio, è la catastrofe per eccellenza. È come se, quando ancora non esiste il sentimento del tempo ossia non si sa che quello che non si vede esiste ancora e quindi tornerà, l’assenza volesse dire “per sempre”, che non vi sarà mai più ritorno.

È intuitivo mi pare: un piccolo essere di pochi mesi non è certo in grado di prevedere nulla al di là forse del fatto che, per abitudine, se avverte un vuoto “da qualche parte”, arriverà “da qualche parte” che noi chiamiamo “bocca” qualcosa in grado di alleviare la sua pena.

Il terrore della perdita irreparabile rimane per sempre nel fondo di ognuno di noi: ne forniscono un esempio i genitori che vegliano trepidanti nella notte, insonni, attendendo il ritorno di un figlio/a che sta solo passando qualche ora con amici; ma che nel loro profondo non tornerà mai più.

Quanti di noi si sono sentiti morire quando quella persona alla quale ci sembrava di tenere più della nostra vita ci ha detto:” Non ti voglio più”, talvolta anche nella forma radicale, assoluta, senza pietà che è il sottrarsi completamente, sparire, morire?

Ecco allora che già il fatto di alludere alla condizione dell’origine di tutti noi umani si rivela il grande problema del vivere: come risponde l’ambiente alla nostra esistenza, al modo in cui noi la manifestiamo?

Quale la risposta alle prime espressioni nelle quali si esprime lo sconcerto di una situazione che non riusciamo per forza di cose a governare e che quindi pare governarci lei senza pietà, confrontandoci a un senso disperante di impotenza totale: il dolore? Per intenderci quello che quel bambino di cui dicevo doveva senza dubbio provare?

Ecco: farsi carico del dolore della catastrofe di vivere è il compito dell’adulto, quello che trasforma coloro che generano biologicamente in genitori effettivi e il bambino/a messo al mondo in figlio/a effettivi.

Il dolore esiste ed è necessario imparare a governarlo per non esserne governati al punto di non riuscire a dare un senso alla propria vita quando il male si fa sentire e si avverte anche il rischio di scomparire, di perdersi di vista, di non sapere più chi si è.

E allora pensandoci, esiste un enorme pericolo in una società edonista come l’attuale. Essa aborre il dolore e lo presenta come uno scandalo di cui liberarsi sempre e comunque. In questo modo però si genera il rischio di crescere figli e figlie incapaci di farvi i conti, di governarlo, e che nella loro fragilità permanente possono reagire come lattanti smarriti, impazzire e finanche morire di dolore se non sono stati aiutati a mantenere il senso della propria esistenza di fronte a quello che ci si può anche ergere contro in qualsiasi momento.

Figli dei due sessi che, a prescindere dall’età anagrafica,  restano “kids” e dunque esposti a piegarsi facilmente e a impazzire di dolore di fronte a ogni imprevisto o delusione, come bambini piccoli che  ne attribuiscono la “colpa” al cattivo di turno. Un cattivo che può essere una persona ma anche un animale o un oggetto, per esempio lo spigolo del tavolo che urtiamo con la testa e che la mamma punisce dandogli qualche schiaffetto per consolarci.

E allora che senso ha sorprendersi, scandalizzarsi, indignarsi, se di fronte all’incapacità di mantenere un minimo di pensiero che aiuti ad assorbire l’avversità per superare il dolore che pare annientarti, c’è chi cerca di uscire da quella che è una minaccia effettiva alla propria esistenza, facendo ciecamente qualcosa, magari assassinando genitori, fratelli, sorelle, amori?

 

Giorgio Landoni:
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