Capita a tutti che, quando la realtà delude le nostre aspettative, la trattiamo come se fosse sbagliata, vorremmo negarla. Si tratta di un modo per evitare di mettere in questione le nostre teorie per il semplice motivo che spesso esse contengono il sentimento della nostra identità: dicono quello che siamo
(in apertura: Antigone ne La peste di Tebe di Charles Francois Jalabert, da Wikipedia)
Partiamo da qui. In un recente articolo, per i lettori Grey Panthers, sul tema “Il senso del Sacro, oggi (e la dissacrazione, sua contemporanea)” scrivevo: “Un interessante libro di Silvano Petrosino (Il sacrificio sospeso. Per sempre. Ed. Jaca Book, 2015) inizia con un interrogativo drammatico: come poté Dio chiedere ad Abramo il sacrificio di Isacco, chiedere a un padre di sacrificare il figlio?”.
Eppure, è accaduto. Questa, almeno, è la leggenda. Un certo disincanto è sempre utile per non essere eccessivamente colpiti dalla realtà che ci sorprende con la sua imprevedibilità quando sembra rifiutarsi di adattarsi alle teorie che, più o meno consapevolmente, tutti noi ci portiamo dentro. Questo disincanto potrebbe aiutarci a reagire in modo non “reattivo”, carico di delusione e irritazione, ma piuttosto ragionevole e, per quanto possibile, efficace. Infatti, capita a tutti che, quando la realtà delude le nostre aspettative, la trattiamo come se fosse sbagliata, vorremmo negarla. Si tratta di un modo per evitare di mettere in questione le nostre teorie per il semplice motivo che spesso esse contengono il sentimento della nostra identità: dicono quello che siamo, si diceva all’inizio.
Tornando, allora, ad Abramo e a suo figlio Isacco, è bene sottolineare che i rapporti genealogici sono molto più complessi di quello che la retorica corrente, riguardante genitori e bambini/e, ci racconta. Vale la pena di avere chiaro questo punto, altrimenti le cose rischiano di farsi eccessivamente complicate. Come esemplifica la vicenda di Edipo, antico, leggendario re di Corinto.
Il mito di Edipo, ieri e oggi
La storia di Edipo, re di Corinto, è oggetto di una affascinante narrazione in forma di mito genealogico. Già Omero, una volta nell’Iliade e un’altra nell’Odissea, ricorda il nome di Edipo la cui leggenda era stata sviluppata in un poema epico attribuito a un poeta di nome Cinetone.
Noi la conosciamo nella forma nella quale la fissò la tragedia attica del V° secolo a.C., soprattutto in Sofocle (“Edipo re” ed “Edipo a Colono”) e in Euripide (“Le Fenicie”).
In breve, la vicenda riguarda la nascita di Edipo dal matrimonio di Laio, figlio di Labdaco e re di Tebe, con Giocasta. Laio era stato ammonito dall’oracolo di Delfi di non avere un figlio, poiché questi sarebbe stato il suo uccisore. Quando Edipo nacque, per stornare la predizione dell’oracolo, il padre lo fece esporre sul monte Citerone dopo avergli trafitto i piedi affinché a nessuno venisse il desiderio di prendersi cura di un fanciullo reso deforme in questo modo. Lo raccolse, invece, Euforbo, pastore di Polibo, re di Corinto, a cui lo consegnò. Educato e cresciuto a corte, divenuto adulto, Edipo concepì sospetti sulla propria nascita in seguito ad alcune frasi pronunciate da un bevitore ebbro durante un banchetto.
Allora, come già aveva fatto Laio a suo tempo, egli consultò l’oracolo di Delfi il quale si limitò a predirgli che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Spaventato, ritenendo che coloro i quali lo avevano accolto fossero i suoi veri genitori, Edipo si allontanò da Corinto dirigendosi verso la Grecia centrale e, arrivato nella Focide, a un bivio incontrò Laio, il suo vero padre, con cui ebbe un diverbio e lo uccise. Proseguendo il cammino giunse a Tebe che si trovava sotto l’incubo di un terribile mostro, la Sfinge, donna con il corpo di leone che proponeva ai viandanti un enigma, promettendo loro di lasciarli vivi e di uccidersi se lo avessero risolto.
Conosciuta intanto a Tebe la morte di Laio, il cognato di lui, Creonte, aveva promesso il trono della città e la mano della vedova, Giocasta, la vera madre di Edipo, a chiunque avesse liberato la città dalla Sfinge. Edipo scioglie l’enigma e il mostro si uccide.
Egli entra in città, ottiene il regno, sposa Giocasta e ne ha due figli, Eteocle e Polinice, e due figlie Antigone e Ismene.
Nella versione più recente del mito, quella che Sofocle accetta nella tragedia da lui creata, molti anni dopo scoppia a Tebe la peste ed è l’occasione perché l’oracolo ne attribuisca la causa alla presenza in città dell’assassino di Laio.
Si giunge così al tragico finale della vicenda in cui Edipo, scoprendo di essere lui quell’assassino incestuoso, si acceca mentre Giocasta si suicida impiccandosi.
Occorre segnalare che la maggior parte delle versioni della leggenda libera i figli di Edipo dalla taccia della nascita incestuosa, attribuendoli, invece, a un‘altra madre.
Tuttavia, più che dal mito, delle cui numerose forme si può trovare il racconto in quella sterminata enciclopedia universale che chiamiamo internet, la vicenda edipica ci è familiare attraverso la tragedia di Sofocle intitolata appunto “Edipo re”.
Il mito di Edipo e la tragedia
La tragedia adotta una delle molteplici versioni del mito.
Sofocle non si preoccupa tanto di dare una versione completa di esso, né lo avrebbe potuto probabilmente anche se lo avesse voluto, ma sceglie alcune opzioni per illustrare il tormento legato al passaggio dai legami cosiddetti del sangue a quelli sociali.
Nell’Ellade classica, ove la tragedia venne rappresentata per la prima volta, il teatro non aveva lo stesso senso che esso ha per noi moderni. Per gli Elleni le passioni umane erano frutto dell’intervento divino e quindi, a volte, non ricordo più se sia il caso precisamente di Edipo, gli spettatori, atterriti da quanto si stava rappresentando sulla scena, fuggivano dal teatro, temendo che l’ira degli dèi potesse colpirli come sembrava stesse accadendo agli attori.
Per molto tempo la leggenda di Edipo fu interpretata concordemente come un mito solare, arrivando a collegare fra di loro i diversi momenti della leggenda e i singoli fenomeni del nostro astro diurno. Successivamente, più vicino a noi, si sono proposte, invece, interpretazioni ctonie, legate alle divinità infernali a cui si riferivano i piedi deformi di Edipo, piedi animaleschi, neri come quelli dei demoni, appunto.
La tragedia di Sofocle ispirò a Sigmund Freud alcune considerazioni circa i rapporti di famiglia e la loro influenza sulle vicende, più complesse, della società umana.
In un certo senso essa è all’origine della psicoanalisi.
L’Edipo della psicoanalisi
Freud introdusse il concetto di complesso edipico collegando fra di loro due termini, complesso ed Edipo, in modo innovativo per illustrare la funzione strutturante giocata da insiemi organizzati di idee e ricordi, appunto i complessi, in parte o totalmente inconsci, che hanno un valore affettivo particolarmente intenso e, quindi, un peso determinante sullo sviluppo dell’essere umano.
La terminologia legata a questi insiemi, i complessi, è anche passata nel linguaggio comune, come molte altre invenzioni della psicoanalisi: si parla, infatti, facilmente del fatto che qualcuno possa essere o apparire “complessato”.
Tuttavia, la parola “complesso” non piaceva molto a Freud (e neppure a me per quel che vale) perché, usandola, rischiamo da un lato di perdere di vista la singolarità di ogni caso umano e dall’altro di considerare il complesso come qualcosa di patologico, da eliminare quindi, perdendone di vista la funzione strutturante della personalità a certi momenti dello sviluppo.
Questo vale particolarmente per quello che va sotto il nome, molto noto, di complesso di Edipo.
Per chiarire questa posizione direi che per complesso si può intendere dunque:
- Un insieme relativamente stabile e fisso di idee e sentimenti che può dare luogo a
- un insieme più o meno organizzato di tratti di personalità specifici di una persona.
- In un senso molto stretto, parlando poi di complesso di Edipo, ci riferiamo a una struttura fondamentale dei rapporti umani e delle relazioni interpersonali tipici di una persona e del suo modo di situarvisi e di farli propri.
Per la psicoanalisi freudiana questo accade perché il complesso, di cui ho appena ricordato il senso, si costituisce a partire dalle relazioni interpersonali della storia infantile e influisce quindi sulla struttura del carattere di ogni persona a tutti i livelli psicologici: emozioni, pensieri, atteggiamenti e comportamenti più o meno adattati alla vita in comune.
In alcuni casi o meglio per alcuni aspetti, questi elementi restano molto attivi e a essi rimaniamo attaccati senza rendercene pienamente conto salvo nel caso in cui riusciamo a decifrare il senso di alcuni nostri atteggiamenti o inclinazioni che possono esprimere, per esempio, un conflitto fra situazioni emotive colme di sentimenti contrastanti: in breve amore e odio nello stesso tempo.
Quando gli fu chiesto di chiarire per un pubblico profano il senso del complesso edipico, Freud iniziò ricordando che molti (in realtà secondo lui tutti) conoscono la leggenda greca del re Edipo, destinato dal Fato a uccidere suo padre e a prendere in sposa sua madre, che fa di tutto per sfuggire alla sentenza dell’oracolo e che alla fine si punisce accecandosi quando apprende che, senza rendersene conto, ha commesso ambedue questi delitti.
Egli mostra che l’opera di Sofocle svela poco alla volta, con un’indagine lenta, ma riattivata continuamente da nuovi indizi, il misfatto di Edipo commesso molto tempo prima. Da questo punto di vista essa assomiglia molto da vicino a un’indagine psicoanalitica.
Secondo i canoni della nostra morale comune, l’opera di Sofocle, che tanto turbò i suoi contemporanei e concittadini ateniesi, è un’opera immorale poiché annulla la responsabilità individuale dell’uomo mostrando che il delitto è istigato da forze superiori, divine, rispetto alle quali gli impulsi morali dell’uomo che a esso si opporrebbero, sono assolutamente impotenti.
Sembrerebbe quasi che la materia della leggenda serva per accusare gli dèi e il Fato, cosa che succede a volte ancora oggi, anche se in forma scientifica, quando genetica e biologia vengono chiamate a spiegare certi delitti come ineluttabili perché su base organica, legata alla materia di cui siamo fatti. Dalla spiegazione a una certa giustificazione il passo poi è breve come si può facilmente capire.
Tuttavia, l’odierno spettatore della tragedia non reagisce alla morale, ma al senso e al contenuto segreto della leggenda.
Reagisce perché la cosa lo tocca da vicino.
Essa tocca tutti noi nell’intimo.
Il complesso di Edipo
La voce del poeta, come spesso accade, risuona in noi e sembra dire:” Ti dibatti invano contro le tue responsabilità e invochi a tua discolpa tutte le buone cose che hai fatto per contrastare queste intenzioni malvagie. Sei colpevole lo stesso perché queste intenzioni vivono comunque ancora dentro di te”
In questo è contenuta una verità psicologica che rende conto dei sensi di colpa che ci portiamo dentro senza capirne il motivo soprattutto quando lo cerchiamo fuori di noi.
Se si osservano i bambini piccoli, dei due sessi, si noterà facilmente l’atteggiamento esclusivo e possessivo che essi assumono verso l’uno o l’altro genitore, verso la madre in primis per i primissimi tempi della vita nel mondo, e le manifestazioni di insofferenza verso quello che vorrebbero escludere, considerato un estraneo fastidioso solo perché la sua presenza si frappone a questo desiderio di possesso esclusivo. A volte i bambini piccoli danno diretta espressione a quello che pensano e quindi ai sentimenti che provano promettendo che da grandi sposeranno mamma o papà quando l’altro genitore sarà morto.
Poca cosa rispetto ai misfatti di Edipo? Certo, ma già abbastanza: si tratta in fondo, in germe, della stessa cosa.
Tutto questo non è contraddetto dal fatto che in altre circostanze quegli stessi piccoli mostrino grande affetto anche per il genitore che vorrebbero allontanare. Si tratta di una normale ambivalenza affettiva la quale, se nell’adulto potrebbe portare a conflitti a volte anche intensi, nei piccoli rimane, invece, presente nei suoi componenti, i sentimenti in contrasto, perfettamente compatibili tra loro anche per un lungo periodo di tempo.
Occorre aggiungere che gli stessi genitori portano responsabilità certe nel risveglio delle tendenze “edipiche” dei propri bambini, non solo mostrando apertamente inclinazioni che favoriscono l’uno rispetto all’altro, ma anche rispondendo in vario modo, volenti o meno, alle indagini dei piccoli circa l’origine degli esseri umani.
Il complesso di Edipo e il mito delle origini
La curiosità sulla propria origine e l’indagine su di essa, ben evidente nella vicenda di Edipo, è abbastanza chiara nella sua sostanza. È una curiosità che riguarda tutti gli esseri umani: basti pensare al fatto che vi erano da tempo immemorabile risposte che si davano alla curiosità infantile (o forse si danno anche adesso) secondo le quali i bambini sono portati dalla cicogna, trovati sotto un cavolo o comperati al mercato.
Questo fatto permette di aggiungere una postilla circa l’importanza della posizione occupata da ogni figlio/a nella serie dei figli nel determinare il destino successivo di ognuno di loro.
Quanto precede non inficia la natura spontanea di quello che è stato chiamato complesso di Edipo il quale sostanzialmente indica che siamo inclini a due tipi di delitti, l’assassinio e l’incesto, che la legge come espressione del legame sociale si incarica di proibire sempre e comunque.
È evidente che questa proibizione non sarebbe necessaria, e punita dalle leggi in ogni dove, nel tempo e nello spazio, se vi fosse in noi una barriera naturale, sicura e certa, contro la tentazione di questi delitti.
La verità è che questa barriera non esiste in natura, ma si costruisce progressivamente contro la prima spinta di ogni essere umano che si rivolge sempre ai genitori, presi come oggetto delle richieste amorose o delle tendenze distruttive.
Sempre e ovunque dunque esistono divieti a questo proposito e ce lo mostrano bene i riti di iniziazione, che esistono dappertutto nelle forme più varie a sancire la fine dell’infanzia. Questi riti hanno sempre il significato di sciogliere gli antichi turbolenti legami infantili con in genitori, rinunciando a loro sia come “amici” sia come “nemici” per diventare adulti a propria volta.
Se prendiamo allora l’insieme di Edipo e complesso, il complesso di Edipo può essere considerato come l’insieme organizzato di sentimenti ostili e affettuosi che i piccoli dei due sessi provano nei confronti dei genitori.
L’acme di questa situazione, si verifica nella prima infanzia, tra i tre e i cinque anni di età, si raffredda successivamente e riprende alla pubertà quando la vitalità della giovinezza comincia a farsi sentire.
A quest’epoca il modo in cui l’Edipo infantile è stato affrontato e più o meno risolto, influirà sul modo nel quale ognuno di noi sceglierà le persone che assumeranno un ruolo fondamentale nella propria esistenza.
Detto altrimenti, il complesso edipico gioca un ruolo fondamentale nella strutturazione della personalità e nell’orientamento dei desideri umani.
In fondo si tratta di una struttura triangolare (due genitori e un discendente) presente universalmente e non solo nelle culture in cui predomina la famiglia coniugale.
Occorre precisare che il complesso edipico nel suo insieme non è così semplice come a volte viene descritto perché i sentimenti per i genitori sono, come si dice, ambivalenti. Per esempio, il piccolo dei due sessi che vede il genitore, l’adulto come un ostacolo che gli sottrae l’oggetto ideale, la Mamma, con la maiuscola, che vorrebbe tutta per sé, nello stesso tempo ama e ammira in quello stesso adulto, femmina o maschio, quello che gli si propone, per forza di cose, come primo modello di crescita.
Da qui alcune conseguenze con le quali tutti noi, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti:
- Il modo in cui scegliamo gli oggetti significativi, quelli da cui la nostra esistenza prende senso.
- Il modo in cui trattiamo tali oggetti, dando il posto che a loro compete in quanto quelli da cui discende il senso della nostra vita. Si tratta di un vero e proprio problema.
- La strutturazione della nostra personalità soprattutto per quanto riguarda principi e valori.
Il complesso edipico non può dunque essere ridotto all’influsso esercitato su un bambino/a dalla coppia dei genitori, ma deriva la sua efficacia dal fatto di far intervenire un’istanza proibente, si chiama Padre nel linguaggio corrente del mondo occidentale, che limita l’accesso alla soddisfazione completa delle proprie voglie.
È bene chiarire che la coppia dei genitori esiste sempre, almeno sul piano delle fantasie che è poi quello che conta, perché anche se a un bambino può mancare l’uno o l’altro genitore per i motivi più vari, la presenza di un altro, oltre a quello eventualmente presente, necessario alla generazione non è cancellabile dalla mente di nessuno.
In conclusione, potremmo dire che per Edipo intendiamo un mito che traduce l’esigenza alla quale ognuno di noi deve sottostare, di essere un discendente, generato da qualcuno che noi non scegliamo e in tempi e luoghi che sfuggono alle nostre possibilità di controllo.
Detto altrimenti, vi è una legge che mette un limite alle nostre voglie, alla nostra onnipotenza e che esprime semplicemente la realtà delle cose.
Complesso di Edipo, quali conseguenze?
Certamente le ragioni che indussero Freud a scegliere la tragedia per illustrare le proprie idee sono cambiate nel tempo, ma la sostanza, pur calata in forme diverse, resta la stessa: non possiamo essere esseri umani senza un ordine sociale assicurato da leggi che contrastino le spinte più primitive che ci portiamo dentro.
(Ne abbiamo in parte parlato anche negli articoli “Se vengono meno sentimento, memoria e tradizioni della comunità cui si appartiene, trionfa la violenza“, “Per evitare gli eventi violenti del nostro tempo, non si devono distruggere i legami e le regole del vivere sociale“, “L’impossibile sogno dell’uomo di essere la Legge per se stesso”, “Doveri universali, la cornice normativa che dà senso ai nostri diritti” di questa rubrica)
In questo senso la tragedia di Edipo illustra le conseguenze tragiche legate al rifiuto di assecondare quelle leggi che la semplice razionalità umana ci imporrebbe di accettare. Le leggi che noi ci diamo, ed entro il cui circuito conduciamo la nostra esistenza, sono, quindi, un male necessario poiché ci obbligano a prendere distanza dai nostri affetti più originari, più profondi, quelli che ci legano agli autori della nostra esistenza. Esse sono sempre strumenti imperfetti, ma restano comunque indispensabili.
Aristotele ne dà una definizione impressionante nella sua freddezza. Secondo la sua opinione la legge, e lo stato che la rappresenta e la fa rispettare, esistono per mediare fra il dio e la bestia. Legge e stato umanizzano l’essere umano, socializzandolo anche se la loro è una mediazione instabile, con l’equilibrismo e il disagio di cui ogni vita civile è costantemente impregnata.
La letteratura è a volte idiota e fuori norma, ma in genere è anche utile perché non dimentica e non fa dimenticare il dio e la bestia che sono in noi.
Possiamo lecitamente chiederci se ciò che è divino e ciò che è animale vengano conciliati e tenuti in equilibrio oppure se essi siano, invece, eliminati dalla mediazione delle istituzioni sociali.
Quest’ultima ipotesi è assai poco credibile anche se la massima parte dell’umanità pensa, quindi in fondo anche vorrebbe, che fosse così, almeno da noi in Occidente. Altrimenti non si potrebbe spiegare lo sgomento, la collera, lo stupore un poco ottuso che prende molti quando la bestia, avuto il sopravvento, si manifesta attraverso qualche vicenda che la cronaca quotidiana riporta.
La verità è che molto spesso siamo tagliati fuori da quello che siamo realmente a meno che non riusciamo ad accedere, con atto di responsabilità personale, a quello che ci fa vivere, alla verità oscura che ci abita.
Qualunque clinica psicoanalitica è una clinica del gruppo sociale, della sua base, la famiglia e, da lì, dei processi di filiazione che la caratterizzano come espressione del problema dei fondamenti della vita per il soggetto umano.
Per tutta l’umanità poi, la filiazione è all’inizio di qualsiasi sistema istituzionale. In particolare, per l’Occidente, la nozione di filiazione è l’ultima giustificazione di quello che chiamiamo Legge.
La filiazione porta nella specie umana la dimensione della vita nel modo particolare che la distingue, secondo il quale i figli dei due sessi succedono ai figli sotto l’egida di un principio separatore, quello che appunto la psicoanalisi freudiana assume sotto il nome di Edipo.
Da questo punto di vista, il complesso che va sotto questo nome è in definitiva la relazione di un soggetto ai responsabili della sua venuta nel mondo, nella duplice differenza dei sessi e delle generazioni.
Questo perché le differenze, come ogni scarto, fondano il pensiero, obbligano a interrogarsi e quindi a pensare. La differenza si impone come constatazione di una incompletezza che ci pone di fronte all’enigma di quello che noi non siamo e che tuttavia esiste.
È banale: ognuno di noi è completo, ma nessuno di noi è tutto.
In definitiva si potrebbe dire che l’Edipo si riassume in questo: addomesticare il fondo dell’animale che parla.
Si potrebbe concludere che ai nostri giorni sotto la dizione di Edipo la psicoanalisi indica i due compiti più ardui che incombono all’essere umano: far prevalere la vita sulla morte, sulla tendenza a distruggere e assumere la propria identità sessuale.
Questo non potrà mai darsi in modo completo, come molto si auspicherebbe per realizzare il sogno di un soggetto perfettamente normalizzabile e quindi, mano a mano che la vitalità originaria, primitiva, animalesca, si intreccia con quella forgiata dalla cultura, si svela un destino individuale, destino di ognuno, che noi cogliamo solo a posteriori, quando esso si è già svolto nella doppia opposizione che ci interroga e ci turba: femminile e maschile, vita e morte.