Occorre un certo coraggio per occuparsi di cose sgradevoli. Si rischia di perdere quella leggerezza che sempre conviene quando ci si dedica al legno storto del quale tutti noi umani siamo fatti.
Qualche settimana addietro, intervenendo sul “Corriere della Sera” con uno scritto dal titolo ironico e amaro:“Benvenuti nell’era volgare”, Claudio Magris presentava un libro di Carlo Ossola, docente al Collège de France, intitolato un “Trattato delle piccole virtù”, indagine “….sulle ultime difese morali di un mondo che trascende”. A partire dal libro, Magris mostrava come la grossolanità e l’oscenità diffuse sembrano la cifra con la quale l’epoca attuale voglia caratterizzarsi.
Non ho letto il libro e quindi non so in quale misura il testo riporti il pensiero del suo autore o quello di chi lo commenta e li unisco dunque in un comune sentire, quello che si conviene a due gentiluomini solidali in un forte disagio di fronte a certa volgarità che l’epoca propone.
“Era volgare” appunto, caratterizzata dalla perdita dell’urbanità, una di quelle “piccole virtù”, come schiettezza scevra da violenza, rispetto reciproco, costanza, generosità, gratitudine, sostituite dalla falsa forza di una insolenza greve che caratterizza tanti scambi sociali, pubblici e anche privati. Prescindendo beninteso da ogni considerazione di livello culturale, sociale o economico.
Notano infatti gli autori, come anche le cosiddette élites, un tempo depositarie delle buone maniere, sembrino ritenersi affrancate dagli obblighi della buona educazione e della cortesia in nome di una presunta superiorità che accorderebbe loro il privilegio della grossolanità, del linguaggio e dei modi, escludendo ogni considerazione di convenienza e di buon gusto.
Un rimedio per contrastare questa inclinazione deteriore potrebbe consistere nella sanzione?
Non si può negare che l’impunità incoraggi la tracotanza e quindi anche il ricorso alla volgarità di modi e di linguaggio favorendone la diffusione, così come é vero che la sanzione fa parte del processo educativo e quindi può essere utile nell’immediato, ma vi é anche un problema di fondo?
La sanzione può contrastare la tendenza al degrado e quindi essere certamente di aiuto nell’immediato, ma essa non garantisce nulla quanto all’acquisizione di rapporti umani che si elevino al di sopra di quelli del branco animalesco.
Cosa fa sì che ognuno di noi inclini alla grossolanità piuttosto che alla gentilezza d’animo, di sentimenti e quindi anche di linguaggio e di comportamento?
Anzi: esiste una causa o anche un insieme di cause per tutto questo?
Una premessa é necessaria: nell’ambito della psicologia umana, la causalità non procede secondo lo schema tipico. Non é affatto detto che, date certe premesse, vi saranno determinate conseguenze.
Ammessa la possibilità, sempre esistente, che qualora si verifichino particolari condizioni sia possibile cadere momentaneamente in una certa trivialità, pure Dante lo fece come ricorda Magris, credo vi sia una risposta ben precisa: quello che si riflette nell’inclinazione alla grossolanità o, al contrario, alla cortesia di modi e di linguaggio come costante di vita é il livello di evoluzione emotiva di una persona.
L’evoluzione emotiva dell’essere umano é il problema fondamentale della nostra esistenza e quindi la soluzione del problema delle relazioni umane non può prescindere dalla componente emotiva insita in esse, dunque dal livello di evoluzione emotiva raggiunto dalle singole persone e di conseguenza anche dalla società che esse costituiscono.
Peraltro l’evoluzione emotiva é una situazione complessa al costituirsi della quale concorrono elementi innati e altri acquisiti, culturali.
Cosa può dire lo psicoanalista al riguardo? Tanto e poco al contempo.
Tanto perché evoluzione delle emozioni non significa “gestione” di esse, compito già di per sé arduo, se non fosse un poco ridicola la presunzione di governarle ricorrendo alle stesse tecniche che permettono di addestrare gli animali del circo. Se il desiderio di mutare gli equilibri sociali in modo emotivamente evoluto si esprime nel proporre alle persone una cornice adeguata entro la quale l’individuo dovrebbe effettuare i propri assestamenti interiori, non si andrà oltre una forma di addestramento condizionato basato sui soliti principi di ricompensa e/o sanzione.
É abbastanza buffo il tentativo, molto diffuso socialmente nonché riuscito almeno fino a un certo punto, di umanizzare gli impulsi e di conseguenza il comportamento degli animali, non unicamente cani e gatti, trattandoli non solo come degni di rispetto in quanto esseri viventi, ma spingendoli a comportarsi quasi come esseri umani mentre, per contro, si propone agli esseri umani una sorta di dressage animalesco basato su ricompensa e punizione.
Il tanto di cui in precedenza diventa però molto poco per due motivi.
Il primo é costituito dalla organizzazione sociale nella quale viviamo e della quale occorre tenere conto. Nella nostra vita esistono forme di associazione indiscutibilmente distruttive della salute mentale e del benessere dei propri membri o che, almeno, non se ne preoccupano molto.
In certi ambiti della società il successo coincide con la capacità di distruggere e la ricerca del successo prevale sulla preoccupazione per ciò che si può distruggere, se stessi compresi. Come accade ai bambini molto piccoli. Sappiamo, per esempio, che per i fisici che inventarono la bomba atomica il successo consistette nella capacità di costruire un ordigno in grado di distruggere due città giapponesi, uccidendo migliaia di persone che, come ognuno di noi, vivevano nella speranza di veder finire l’orrore al quale erano sottoposte senza nessuna possibilità di influire su di esso. Poi però ci furono le conseguenze: conseguenze emotive. Robert Oppenheimer e altri che a quel successo avevano contribuito, tentarono di ritrarsi inorriditi, ma dovettero fronteggiare la reazione, anch’essa emotiva, di chi trattò i loro tormenti di coscienza come tradimento.
La seconda ragione é questa: la nostra società é già impregnata, lo si voglia o meno, degli apporti della psicoanalisi, quindi si può dire ben poco di nuovo. In fondo tutto é stato già detto. Tuttavia la stessa società é organizzata per cercare soluzioni tecniche esterne che non pongono al centro dell’indagine l’essere umano. Ogni volta che gli uomini si espongono come elemento intrinseco in un problema sottoposto a indagine, quando cioè diventano essi stessi oggetto di studio sotto il profilo emotivo, essi regolarmente si ritraggono in un ulteriore rinvio alla possibilità di regolare le cose dall’esterno, restandone fuori.
Si tratta di una pia illusione: solo i rapporti esterni, sociali, possono venire regolati dalle leggi in modo relativamente soddisfacente. Relativamente significa che al variare delle condizioni, come accade nella realtà, le regole che si rivelano inadeguate possono essere sostituite come da prassi comune.
Quando però passiamo alle tensioni emotive profonde, sottostanti alle relazioni umane e che le condizionano, le cose si complicano e le regole non bastano più perché il problema fondamentale é invece costituito proprio dalle tensioni primitive inconsce che non sono regolabili solo con le leggi.
Basta pensarci per accorgersene. La violenza contro le donne può essere affrontata con regole sempre più incisive, ma come per qualsiasi delitto esse non fanno diminuire la frequenza dei reati anche se possono togliere dal circuito sociale chi li commette, in modo più o meno definitivo.
Ancora: il tifo calcistico riunisce grandi masse umane in spazi ristretti. Quello che vi può accadere é noto: sovente persone altrimenti “normali” rivelano aspetti di intensa passionalità e trascendono in modo triviale e/o “bestiale” quando si tratta della cosiddetta, non a caso, “squadra del cuore”. Interventi anche molto duri non evitano che ciò che viene impedito in un luogo si scateni poi altrove a opera delle stesse persone.
Evoluzione emotiva?
Lo studio dei gruppi sociali nel mondo occidentale (ma ormai tutto il mondo si sta conformando a quello occidentale) é affidato a una serie di discipline separate fra di loro, cosa che si può capire essendo l’oggetto di questo studio ancora non ben definito.
Generalizzando un poco, sembra che sia possibile dire che ci vengono proposte due visioni: una crede nella supremazia dell’integrità della ragione, l’altra “tenta” di tenere conto anche della componente emotiva nelle relazioni umane.
Dico che essa “tenta”, perché in genere il riferimento all’emotività non implica una reale comprensione della natura e del senso dei nostri impulsi più profondi, dei quali non abbiamo consapevolezza e quindi controllo.
Per indicare qualcosa di cui non siamo pienamente consapevoli é di uso corrente il termine di “inconscio”. Per la psicoanalisi esso indica un modo particolare del funzionamento umano, diverso dalla razionalità assoluta alla quale si tende e che resta una specie di chimera irraggiungibile perché inesistente. In questo senso, per la psicoanalisi un senso di colpa inconscio non é solo qualcosa di cui non siamo consapevoli, ma qualcosa che può esprimersi in forma assolutamente irriconoscibile, per esempio come depressione, oppure come timore o addirittura come certezza di essere ammalati.
La vera razionalità consiste nel tenere conto della nostra sostanza emotiva e questo richiede impegno, costanza e quel tanto di disagio che ci impone sempre la rinuncia alla scarica delle nostre tensioni emotive nella ricerca di soluzioni immediate, appunto impulsive.
Credo che Magris/Ossola si riferiscano a questo genere di problemi quando descrivono l’urbanità in declino come quella qualità che ci permette di essere autentici mantenendo il rispetto degli altri, “dissimulando onestamente per non ferire”, dicendo le cose chiaramente, ma senza brutalità e senza volontà di schiacciare e di umiliare. Potersi manifestare in questo modo é indice di maturità emotiva e per ottenerla occorre innanzitutto prestare attenzione ai fatti in controtendenza rispetto a questo obiettivo.
Essi sono sotto gli occhi di tutti e se ne parla continuamente. Il nostro tempo vede enormi progressi tecnici accompagnati da un senso di malessere diffuso, tanto che, secondo le stime della OMS, la cosiddetta depressione pare essere la “malattia” della nostra epoca, anche se l’infelicità non impedisce alle persone di continuare a vivere.
Le conquiste tecniche sono facilmente comunicabili: si trasmettono e si diffondono senza problemi e sono poste a disposizione di miliardi di persone che le acquisiscono e possono disporre del loro potere. L’acquisizione delle abilità tecniche ha in sé qualcosa di animalesco perché, in parte maggiore o minore, é basata sull’imitazione e si accompagna alla soddisfazione di un’acquisizione ottenuta con poco sforzo.
Diverso il discorso per le competenze emotive, legate a uno sviluppo che riguarda la specie umana in quanto tale. Lo sviluppo emotivo non si trasmette facilmente. Le sue prime manifestazioni, radicate nel corpo e trasmesse attraverso i suoi primi contatti con il mondo, comportano che le emozioni siano qualcosa che precede la stessa capacità di parlare e quindi siano qualcosa di molto primitivo.
Solo successivamente la facoltà di parlare prende “corpo”, quando ci stacchiamo dalla vicinanza fisica con la madre, quando iniziamo a non fare più tutt’uno con essa. Si può dire che la madre dia la parola in cambio della separazione fisica e come compenso per essa.
Capire come tutto questo accada permetterebbe anche di capire come trattare quegli impulsi infantili di tipo animalesco i quali, proprio perché impulsivi, mal si adattano alla vita sociale e anzi contribuiscono a deteriorarne la qualità.
Pensando al rapporto fra sviluppo tecnico e progresso emotivo, é forse errato ritenere che la salute mentale ossia la possibilità di raggiungere e di mantenere un buon livello di evoluzione emotiva dipenda dalla capacità di occuparsi di quei problemi che quello stesso progresso tecnico fa sorgere?
Se proviamo a osservare da vicino la posizione arcaica cui accennavo, fatta di questi impulsi primitivi che noi chiamiamo infantili, vediamo che al loro livello la libertà equivale a fare tutto quello che viene in mente, onnipotenza dunque, rifiuto di ogni limite e di ogni ostacolo, prepotenza per prevalere sempre e comunque, gelosia e intolleranza, rabbia di fronte all’ostacolo, pretesa senza fine, senso di una propria unicità e visione di se stessi come misura del valore del mondo e della vita, sforzo intenso di piegare la realtà e il mondo alla propria volontà.
E ancora: attaccamento per chi ci corrisponde e ci asseconda, odio per chi invece non si piega o ci contrasta, a prescindere da ogni considerazione di male o di bene, di negativo o positivo, di danno o utilità.
Tutto questo è il mondo naturale, originario del bambino.
Nel linguaggio tecnico si chiama narcisismo e, in misura più o meno notevole, questo mondo permane anche negli adulti, dando luogo, se presente in modo eccessivo, a quelle “personalità narcisistiche” che vivono qualsiasi confronto venato di opposizione come un’offesa personale alla quale reagiscono in genere in modo veemente.
Nelle prime fasi della vita compete all’adulto di riferimento, di solito la madre, farsi carico di queste caratteristiche generali dell’essere umano. Lo fa dapprima confermandole attraverso espressioni ben note, verbali o altre: baci, abbracci, carezze, parole dolci ed espressioni affettuose “tesoro mio, amore mio, angelo mio ecc. ecc.”. É giusto e necessario che questo avvenga: permette di iniziare a sperimentare la vita come un’avventura gradevole, accogliente. Poi però, poco alla volta si dovranno introdurre dei limiti.
Come detto, in cambio della progressiva rinuncia a fare tutt’uno con questo adulto che ci dà un piacevole senso di grandiosità (di solito ma non sempre e non comunque), ci viene fornito un compenso sostanziale, almeno per noi esseri umani: la lingua materna. Dire “mamma” prende in parte il posto del fatto di afferrare la madre materialmente, di toccarla, di brandirla, di farla cosa propria al servizio della volontà soggettiva anche quando inespressa. Il modo in cui questo accade, la maniera nella quale ciascuno di noi é stato condotto a prendere atto, più o meno gentilmente, più o meno progressivamente, della necessità di rinunciare a qualche soddisfazione per poter allacciare e mantenere rapporti sociali di un qualche valore, influirà sulla nostra capacità di fronteggiare le evenienze della vita e trattare con esse.
Ne verrà condizionata la nostra capacità di amare, cioè appunto di conservare quel patrimonio prezioso di piccole virtù al di là delle contingenze, o almeno al di là di molte delle contingenze della vita la quale, se pure non prevede che noi dobbiamo sempre prevalere non prevede però neppure il contrario.
Naturalmente ognuno ha poi i propri limiti, ma un conto é avere limiti che può capitare a volte di oltrepassare, un conto é trascendere come modo di essere, a partire dal linguaggio per finire al comportamento.
Forse i rilievi di Ossola e di Magris si riferiscono a un eccesso di questi elementi arcaici a scapito di altri più evoluti, capaci di rispettare il nostro stare insieme in comunità.
Sempre più adulti sembrano restare legati a questo stadio infantile. Per loro gli altri non sono mai oggetti di rispetto, di riguardo, di vero interesse umano, segno di un certo livello di delicatezza di sentimenti raggiunta, ma rimangono mezzi per raggiungere e soddisfare i propri scopi, i propri interessi personali quali che essi siano: economici, politici, sessuali e così via.
Ti insulto ed eccoti annientato!
Ti ricopro di oscenità e non esisti più.
Oppure ti seduco perché intendo servirmi di te per il mio piacere.
E così via.
Parallelamente le doti di rispetto, di cortesia, di generosità che renderebbero più facile il vivere in società paiono subire quella che E. Voegelin, filosofo e scienziato della politica, chiama “un trattamento silenzioso”. La delicatezza dei sentimenti che impone il rispetto come condizione essenziale del vivere sociale, che consente anche alle genti più incolte di rispettare coloro con cui si condivida pane e sale, sembra accantonata senza che ci si preoccupi troppo di recuperarla.
Eppure il saper mantenere buone maniere e urbanità diffonde benessere e contribuisce all’evoluzione nostra e di chi é in relazione con noi.
Forse tendiamo a dimenticarlo?
Per concludere
Certamente il dover rinunciare a certe inclinazioni personali é sempre frustrante e quindi irritante, ma non vi sono scorciatoie: lo sviluppo emotivo consiste nella capacità di sopportare quel tanto di rinuncia che il vivere comune ci impone, senza inaridirci nella depressione o senza scatenarci nella violenza, ma accettando che questo ci dia un che di disagio. É il disagio insito nella cultura come scriveva Freud: per stare insieme dobbiamo rinunciare a parti più o meno estese di noi stessi e questa rinuncia fa nascere la cultura a spese di un certo disagio.
In fondo siamo tutti nella stessa barca e sarebbe intelligente e proficuo imparare a tenerne conto più che tendere ad affondarla pensando che siano gli altri quelli che andranno a fondo.
Se esiste una speranza di riuscire a trasformare l’era volgare, mi pare che essa dipenda dalla possibilità di trovare, sviluppare e specialmente diffondere una tecnica accettabile dello sviluppo emotivo. Tuttavia dobbiamo tristemente ammettere che, per il momento, non si é ancora trovato alcun metodo in grado comunicare lo sviluppo emotivo che non incontri limiti precisi e importanti nel suo stesso campo di applicazione.
Potrebbe darsi che abbiamo un problema con la libertà, un bene moderno, neonato e quindi fragile, che andrebbe probabilmente protetto con cura migliore almeno per tentare di impedire che, in suo nome, la volgarità e la scurrilità si impadroniscano del legame sociale, trasformando argomentazione e confronto in invettiva e scherno, espressi in termini degradati e degradanti, che fanno dell’altro un nemico da ingiuriare per annientarlo.
Forse non sarebbe male riproporre ogni tanto qualche interrogativo sui fondamenti e sul senso dell’esistenza umana che, preoccupati della materia, di per sé grossolana, vengono sovente trascurati come qualcosa di inutile.