Doveri universali, la cornice normativa che dà senso ai nostri diritti

Riflessione di uno sconosciuto ascoltata per caso: “Se esiste una Carta dei diritti universali dell’uomo come mai non esiste anche una Carta dei doveri universali dell’uomo?”. Un’osservazione interessante poiché il rapporto fra diritti e doveri è un tema molto attuale e complesso. A dire il vero, peraltro, nel caso specifico una carta dei doveri è esistita neppure molto tempo fa.

 Una nota di storia

Non avendo le qualità dello storico, né volendo ricorrere al solito confronto un poco ammuffito fra modernità e tradizione, mi limito a un breve riassunto delle vicende che hanno accompagnato quella che oggi viene chiamata in genere “Dichiarazione universale dei diritti umani” (in francese ancora “Droits de l’homme” come all’origine). Esso ci può servire da guida mostrandoci alcune singolarità, slittamenti e omissioni, che danno un senso a questo interrogativo sui doveri.

Senza risalire troppo oltre, alla Magna Charta inglese o alle Carte comunali che appartengono al Medioevo, e sia detto in senso molto rispettoso, di solito si fa risalire la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo alla Rivoluzione francese del 1789, ritagliata in parte sulla precedente dichiarazione di indipendenza dei ribelli americani alla corona inglese.

Una dichiarazione dei diritti dell’uomo e anche del cittadino occorre aggiungere, forse per attenuare una certa impressione che i diritti della donna, compendiati nella dizione esclusivamente al maschile, non fossero poi così importanti.

Qualche signora, una certa combattiva Olympe de Gouges, ad esempio, trovò difficile accettare questa situazione e redasse a sua volta una “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”. Se volessimo consultarla potrebbe essere interessante. Essa doveva dare qualche fastidio di troppo perché la povera Olimpia finì molto male, ghigliottinata già nel 1793. Come disse l’accusatore pubblico di allora, un certo signor Chaumette: “Aveva dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso”.

Ritornando a questa dichiarazione, comunque assolutamente rivoluzionaria, affermava principi i quali suonavano come una condanna a morte per un intero mondo fondato sul privilegio di pochi rispetto a molti, senza molti altri diritti se non quelli legati alla nascita.

La dichiarazione venne poi trasferita quasi completamente nella successiva Costituzione repubblicana del 1795 e qui troviamo la sorpresa poiché la dizione esatta di quella Carta costituzionale recitava infatti: “Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino”. Ai 22 articoli dei diritti dell’uomo si affiancavano 9 articoli di doveri dello stesso.

Alla lettera, essi riguardano ancora solo l’uomo elevato al rango di rappresentante unico dell’umanità con il sottinteso, assolutamente indiscutibile per quei tempi sia pure rivoluzionari, che la donna, come la fatidica costola adamitica, fosse in fondo una parte, forse  anche importante ma solo una parte di un tutto che, sia pure comprendendola, la trascendeva. Rivoluzione dunque, ma “adelante Pedro con juicio”.

Oltre un secolo e mezzo dopo, attraverso varie guerre e qualche decina o forse centinaia di milioni di morti in tutto il mondo, l’Assemblea delle Nazioni Unite approvò nel 1948 una Dichiarazione universale di quelli che ora diventano, a tutti gli effetti, “diritti umani”.

Nella versione francese del testo approvato si parla ancora di “Droits de l’homme” ma si tratta, con ogni evidenza, di un problema linguistico anche se, come spesso accade, esso si presta a speculazioni di ordine ideologico e quindi politico.

Non tutte le nazioni presenti votarono, infatti, a favore di questo documento. Si palesò già allora una divisione, in parte appunto di ordine ideologico, la quale, come possiamo verificare facilmente, permane largamente ancora oggi.

Doveri

Si potrebbe obiettare che, in fondo, affermare i diritti di qualcuno implica anche l’esistenza fra le righe del dovere di osservarli e rispettarli da parte di tutti gli altri. Questo confermerebbe che esiste da sempre un’intima connessione tra diritti e doveri, come se gli uni non potessero esistere senza gli altri.

L’interrogativo dello sconosciuto sull’inesistenza di una carta dei doveri ha dunque un suo senso, ma in fondo suona molto come una messa alla prova del senso comune.

Cosa sono i doveri, poi? quale è la loro natura? quale la loro funzione poiché certamente ne hanno una? cosa accade quando essi sono sostenuti da ideali politici reazionari o meccanicamente repressivi come quelli precedenti la Rivoluzione francese oppure, al contrario, vengono posti in secondo piano da parte di teorie abbigliate di un certo abito di progresso?

In fondo, al di là del fatto di sapere che essi, più o meno esistono, dei doveri in quanto tali oggi si parla abbastanza poco anche se si nota qualche piccolo cambiamento. Essi sono considerati, in genere, come imposizioni o proibizioni alle quali dobbiamo sottostare sotto pena di subire conseguenze spiacevoli. Se non fosse per un certo timore di queste conseguenze tutti saremmo piuttosto inclini a evitarli, come se esistesse in noi un tacito collegamento naturale fra dovere e privazione di piacere.

Per uno psicoanalista questo tacito collegamento è un dato di fatto: dietro ogni posizione, anche di quelle ideologiche o politiche, vi sono sempre, infatti, situazioni emotive profonde, le sole che valgano la pena di essere considerate. Non si tratta dell’emotività, un poco fatua a volte, che induce a parlare dei “vissuti”, quelle ondate emotive che, come le onde appunto vanno e vengono, perché questa emotività che chiamo profonda riguarda un altro mondo, una realtà altra che noi ci portiamo dentro e che ci condiziona tanto più quanto più noi siamo restii ad accettarne l’esistenza.

È la realtà dell’inconscio, invenzione assai poco rassicurante perché ci rende meno padroni di noi stessi, di quanto vorremmo e quindi può suscitare diffidenza come spesso succede alle cose poco confortevoli.

E diritti

I diritti come noi li conosciamo sono una creazione della società greca che ha trovato in seguito un inquadramento formale nel diritto romano di cui ci consideriamo eredi in Europa occidentale. Questa parte del mondo alla quale abbiamo dato il nome di Europa, è stata sempre ed è tuttora profondamente interessata a un interrogativo sulla norma, sui suoi supporti storici e anche sullo statuto antropologico di quello che si intende per “normale”. Appare chiaro quindi che, al di là delle sue imprese scientifiche e tecniche, la civiltà che affonda le sue radici nella cultura dell’occidente europeo sente essa stessa di essere solo un caso di umanità, un caso fra gli altri e nulla più, continuamente alla ricerca di un equilibrio, di una normalità sempre sul punto di essere colta ma anche sempre sfuggente.

Se accantoniamo per un attimo le questioni politiche e ideologiche di qualsiasi colore, non potremo che convenire sul fatto che la questione dei diritti dell’umanità è solo il secondo tempo di un’altra questione, più antica, quella dei “Doveri universali dell’uomo” al netto del fatto che essi possono diventare a volte talmente oppressivi e carichi di abusi da provocare reazioni anche violente, rivoluzionarie. Ce lo dice la tragedia greca, ma non solo essa.

Da quando esistono documenti scritti sulla vicenda umana, questa appare sempre contenuta in un quadro normativo che la regola e al di là degli aspetti concreti che tale quadro assume nello spazio e nel tempo della nostra vita, l’esistenza di un quadro di regole è una necessità in sé, un obbligo, un dovere al quale non possiamo sottrarci come società umana.

Una necessità: il quadro delle regole crea la dimensione giuridica e dà senso al diritto. Senza una cornice che ci inquadra e che certamente ci limita, il diritto, ossia l’insieme delle norme e i principi che le sostengono, non esisterebbe. Vigerebbe la legge dell’orda, del branco, la legge del più forte e in essa, non c’è scampo, non esistono diritti: siamo tutti “il più debole” poiché vi sarà sempre qualcuno più forte, anche solo per un attimo.

In questo senso gli antichi, dai quali amiamo dire di discendere, non avevano scelto vie consolatorie, non amavano le risposte facili e le altrettanto facili consolazioni e autoassoluzioni. Forse essi avevano qualche illusione in meno di noi. Il sistema delle loro leggi contiene, all’origine, più doveri che diritti anche se questi ultimi possono spesso essere dedotti dalla forma assunta da alcuni doveri indicati dalle leggi stesse. Per fare un esempio forse un poco troppo semplice: i dieci comandamenti della legge mosaica comprendono nove doveri in forma di proibizioni e uno solo come indicazione: onorare i genitori, che a questo dunque, hanno diritto. Vi si potrebbe vedere la conferma di un’idea: diritti e doveri camminano insieme e non può essere diversamente. La odierna Carta dei diritti universali contiene per forza anche i doveri pur non facendone sempre menzione esplicita per una evidente necessità politica di compromesso.

I diritti degli uomini di Keith Haring

Intermezzo

La legge, qualsiasi legge, pone certamente un problema: esistono, accanto alle leggi degli uomini, diritti inoppugnabili, irrinunciabili e indiscutibili che queste leggi rischiano di opprimere? Un esempio spesso citato è quello di Antigone, figlia di Edipo, nella tragedia di Sofocle. La riflessione che i Greci consegnano alle tragedie soprattutto di Eschilo o di Sofocle, ma che troviamo largamente ripresa anche più vicino a noi in Shakespeare o anche in Pirandello, sia pure in termini più moderni, ruota intorno a questo dilemma offrendo alla nostra riflessione varie posizioni diverse.

Per rimanere alle origini, Esiodo (Opere e giorni) pare certo che l’esistenza delle leggi, il fatto solo che esse esistano, rispecchi la giustizia intrinseca della natura alla quale è necessario aderire rispettandone il sistema e le misure. Occorre essere giusti: un primo dovere, fondatore di ogni cosa si direbbe perché naturale. Rigare diritto è un dovere perché lo storto è distorsione della giustizia naturale che le leggi rispecchiano, non come singoli provvedimenti ma come necessità d’insieme. Il non rigare diritto è punito in primis dalla divinità: da Zeus, letteralmente “colui che raddrizza lo storto”.

Tucidide ribadisce che il rispetto della legge, perfino nel caso in cui essa potrebbe essere ingiusta, è un dovere al quale nessuno può sottrarsi. Porta a esempio il discorso di Pericle dopo il primo anno di guerra del Peloponneso. Altri si distaccano da questa posizione proponendo spesso l’istruzione, forse oggi diremmo “l’informazione”, al posto della legge poiché quest’ultima fa violenza alla natura, ossia opprime il comportamento spontaneo dell’essere umano.

Per altri ancora, al contrario, è la natura a fare violenza alla legge come si può constatare facilmente ogni volta che passioni e comportamenti violenti prendono il sopravvento. Tutti costoro e altri ancora nel tempo, sollevano un problema che non pare avere soluzione, almeno nella forma che ci viene proposta. Non si può negare che ambedue le posizioni abbiano qualche ragione dalla loro parte, poiché il contrasto fra le forze che spingono da dentro l’essere umano e quelle che lo costringono dall’esterno, la società, pone a tutti il problema di quella autenticità che è tema scottante ancora e sempre ai giorni nostri in varie forme.

Se, lasciando per un momento la storia e il diritto, dai fatti concreti (anche le leggi lo sono), ci rivolgiamo alle ragioni emotive che li generano, la psicoanalisi può aiutare a comprendere meglio la posta in gioco, le sue radici profonde e quindi dare un senso all’intensità delle passioni che questi temi suscitano sempre. Una cornice che permette di meglio inquadrare questi argomenti è costituita dal mito di Edipo, che alla psicoanalisi freudiana è giustamente collegato poiché essa ne fa un elemento assolutamente caratterizzante del funzionamento della mente umana.

Edipo: mito e storia

La vicenda di Edipo ci è nota attraverso una serie di narrazioni delle quali la più conosciuta è certamente la tragedia di Sofocle. Freud, che ne fu profondamente colpito, la adottò per ideare la cornice entro la quale muovere la propria ricerca sul funzionamento della mente umana.Prendendo questo inquadramento come riferimento, riusciremo più facilmente ad andare oltre i fatti materiali perché potremo effettuare un confronto fra essi, ossia la realtà come appare ai sensi di ognuno di noi, e altri fatti che la nostra immaginazione costruisce di continuo, la nostra realtà interiore, psichica come si dice, la quale per lo più non coincide con quella esterna.

Nella vulgata parlare di Edipo sulla scia di Freud significa abitualmente occuparsi delle cattive azioni, parricidio e incesto, di un individuo, un cattivo soggetto si potrebbe dire, che trascina alla rovina un’intera città. La cosa ha una sua logica: da quando documenti scritti attestano qualcosa sulla vicenda umana, ogni sciagura viene attribuita a qualche comportamento negativo, illegale, a qualche trasgressione di un dovere. Si pensi come la prepotenza di Agamennone verso Achille nell’Iliade scateni la peste, oppure come l’incontinenza porti ai Proci rovina e morte.

Vi è però una specie di distorsione perché noi oggi leggiamo i documenti degli antichi, e dunque anche la tragedia di Sofocle, con sguardo moderno ossia centrato sui personaggi, sulla loro personalità, sul loro carattere, come se questo desse senso a tutta la vicenda. Li mettiamo al centro perché ci identifichiamo in loro così come mettiamo noi stessi, sempre, al centro della vicenda umana quasi che il fatto di essere un punto di osservazione di essa facesse di noi il centro di tutta l’intera vicenda del mondo. È comune osservare come spesso le persone rimirino il proprio ombelico come se tutta l’umanità dovesse interessarsene: usiamo allora un termine che la psicoanalisi ha reso corrente, quello di narcisi o di narcisismo.

Al contrario, nota Nicola Gardini, grecista e antichista appassionato ed estremamente acuto, dovremmo capovolgere la prospettiva mettendo il personaggio, e quindi Edipo nel nostro caso, al servizio della vicenda che diventa così la vera protagonista, la sostanza della narrazione. E quale è la vicenda? Certamente non il nostro ombelico, per quanto attraente esso ci possa sembrare, ma la tragedia stessa dell’essere umano: la tragedia del fatto di essere umani, di doverlo diventare. Una tragedia che esiste da sempre, da quando vi è una vita sociale perché tragico è il modo “normale” degli esseri umani di entrare in rapporto gli uni con gli altri.

Edipo e la Sfinge di Giorgio De Chirico

Non basta produrre carne umana per produrre esseri umani. La società non è gruppo e non è gregge, non è neppure una massa informe, ma è una raffigurazione della specie umana poiché l’uomo è la sola carne capace di parlare: la vita sociale è quello che si crea per il soggetto umano in quanto essere vivente che parla. Perché ciò avvenga quella carne deve poter vivere e questo, la vita umana, necessita di un quadro nel quale trovare una collocazione che le permetta di esistere e replicarsi.

Si chiama filiazione. Da carne umana diventare figli e figlie, entrare in una storia che inizia prima di noi e che solo noi possiamo continuare. Questo è Edipo: dal corpo (la carne) attraverso la parola si giunge alla legge, alla necessità di regole che, mettendo un limite alle nostre pretese individuali di chi potrebbe ritenere di avere tutti i diritti, permettono di creare legami fra individui diversi. Il singolo ha senso, acquisisce dei diritti, solo all’interno della rete sociale, della collettività nella quale vive ed opera, una collettività che è al contempo una società e dunque una storia che si sviluppa sia nello spazio sia nel tempo.

Di padre in figlio e non vi è in questa formula alcun riferimento a una predominanza maschile. Il padre è una creazione occidentale, una funzione che può essere svolta da chiunque a prescindere dal sesso anatomico, un principio organizzatore che permette di riunire tre elementi, biologico, sociale e soggettivo, in un’unità che è la base di ogni organizzazione sociale, della polis, organizzazione politica quindi. Tragico e sacro, la divinità che vigila sull’osservanza della legge, vanno insieme dunque, sono dati essenziali della vita umana. Pensare di poterne fare a meno, di trascurarli in nome di una felicità totale e ideale, assicurata dal godimento di diritti che si impongono da soli, è solo una delle tante illusioni, anche pericolose, che nutriamo continuamente, un’impresa che forse eccede le nostre possibilità di esseri umani.

Questo è il senso del concetto psicoanalitico di Edipo. Nessuna banalità pruriginosa, nessun complesso particolare, ma una molla fondamentale per il vivere della specie che parla. Una formulazione tecnica per interrogarsi sulla scommessa iniziale di ogni vita umana: quella di essere nati da due soggetti diversi che, ambedue, parlano. In questo senso Edipo e la sua storia possono ben essere la storia di ognuno di noi, oltre le variazioni che la cultura può imporre alle singole storie nel tempo. Indicano che di una cornice legale, normativa, di doveri abbiamo bisogno perché solo in questo modo anche i nostri diritti umani possono avere un senso.

 

 

 

 

 

Giorgio Landoni:
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