La visita in Italia del Segretario alla Difesa americano, Ashton Carter, ha segnato un momento rilevante per la politica di sicurezza di Roma. Al centro dei colloqui con l’omologo italiano, Roberta Pinotti, vi è stata l’estensione delle regole di ingaggio dei Tornado italiani operanti in Iraq, che dovrebbero passare – di comune accordo con le forze parlamentari – da azioni di ricognizione a vere e proprie offensive aeree. Il governo Renzi sta infatti ancora valutando se avviare la nuova fase militare contro l’ISIS a seguito di un esplicito voto delle Camere oppure con il più semplice assenso delle Commissioni Esteri e Difesa riunite.
Perché l’Iraq è diverso dalla Siria?
Il governo iracheno – spiega Paolo Magri, direttore ISPI – ha formalmente richiesto un intervento internazionale per contrastare lo Stato Islamico che una serie di paesi ha accolto, dando fiducia a un nuovo e più inclusivo corso iracheno. Al contrario in Siria il governo di Assad è parte del problema, non una possibile soluzione. Gli interventi militari in contrasto all’ISIS sino ad ora realizzati sono svolti senza una precisa cornice di legittimità e oltretutto affrontano uno solo dei conflitti in atto nel paese. Per comprendere gli scenari credo sia lecito interrogarsi sul reale significato operativo di un nostro intervento, dato che sarebbe comunque limitato (e si aggiungerebbe a migliaia di raid già realizzati), e resterebbe comunque la necessità dell’intervento principale, ovvero un’azione terrestre.
Quale efficacia per i bombardamenti?Bombardare sì, bombardare no.
Il contingente aereo italiano in Iraq (4 bombardieri Tornado, un’aerocisterna e 2 velivoli teleguidati Reaper disarmati) è l’unico tra i 22 della coalizione a non essere autorizzato a colpire i miliziani dell’ISIS e svolge solo compiti di ricognizione. Un limite politico, sgradito ai militari, che ricorda le limitazioni poste ai Tornado inviati in Afghanistan nel 2008 e poi autorizzati all’uso delle armi solo nel 2012 dal governo Monti. L’impiego bellico dei Tornado – commenta Gianandrea Gaiani (AnalisiDifesa) – renderebbe più efficace l’azione dei nostri velivoli e aumenterebbe le “quotazioni” dell’Italia presso gli USA, che caldeggiano un maggior ruolo dei partner europei, ma non influirebbe sul conflitto che registra l’inefficacia della blanda guerra della coalizione, rivelatasi in un anno incapace di fermare l’avanzata dell’ISIS. Più che in Iraq, la disponibilità italiana a combattere l’ISIS troverebbe un’applicazione più consona agli interessi nazionali in Libia dove le milizie locali faticano a ostacolare lo Stato Islamico a Sirte, e dove Roma ha la pretesa di continuare a esercitare un’influenza e l’interesse a contrastare i jihadisti a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste.
Do ut des. Qual è il vero obiettivo italiano?
Secondo Arturo Varvelli e Stefano Torelli, ISPI, la partecipazione italiana in Iraq è connessa alla questione libica. Nonostante le smentite del ministro Pinotti, il piano del governo potrebbe essere quello di offrire una presenza attiva in Iraq in cambio di garanzie sul ruolo e sugli interessi italiani in Libia, ancora prioritari nella politica estera di Roma. Perché Stati Uniti e alleati occidentali dovrebbero rispondere positivamente a un eventuale appello italiano per la Libia, se Roma si mostra disinteressata e critica nei loro confronti in Siria? Questo – c’è da augurarsi – potrebbe essere il ragionamento che sta dietro il nostro coinvolgimento in Iraq. Ma perché ciò funzioni, Roma dovrebbe fornire agli alleati una visione chiara sia sul piano diplomatico che politico, sul ruolo italiano in Libia, per acquisire quella credibilità necessaria a delineare lo spazio Mediterraneo di domani, e a garantire i nostri interessi fondamentali (sul tema si veda anche il Rapporto ISPI “L’Italia e la minaccia jihadista: quale politica estera?”)
Potrebbe aumentare il rischio di attentati contro l’Italia?
Per Lorenzo Vidino, Center for Cyber and Homeland Security (George Washington University), l’intervento militare in Iraq potrebbe accrescere la possibilità di attentati terroristici nel nostro paese, ma bisogna ricordare che questo rischio già esiste per una serie di motivi: il governo italiano è stato impegnato in diversi teatri di conflitto nel mondo musulmano e l’Italia ospita sul proprio territorio alcuni obiettivi altamente simbolici come il Vaticano, sul quale lo Stato Islamico ha già posto particolare attenzione. Tuttavia, esiste in Italia un apparato di sicurezza di prim’ordine capace, nei limiti immaginabili, di garantire la sicurezza. D’altronde è chiaro che anche il non intervento in questi teatri ha un prezzo: rimandare la lotta allo Stato Islamico consente al gruppo di radicarsi e proliferare, portando una minaccia sempre maggiore nel prossimo futuro.
Fonte: ISPI