È stato firmato oggi a Skhirat, Marocco, un accordo che prevede la formazione di un governo di unità nazionale in Libia entro 40 giorni. La firma avviene dopo l’incontro di Roma di domenica scorsa nel quale si era delineato il piano d’azione: ottenere l’approvazione della maggioranza dei membri dei due parlamenti (Tripoli e Tobruk) che si contendono la legittimità, dei partiti politici e dei rappresentanti locali, bypassando un successivo voto di approvazione da parte dei parlamenti stessi. L’accordo potrebbe aprire nuovi scenari ma un esito felice che conduca ad una ricomposizione politica e militare non è scontato. A Malta, due giorni fa, si sono riuniti i presidenti dei due parlamenti che rappresentano gli intransigenti dei due schieramenti, disapprovando la scelta delle Nazioni Unite e dell’inviato speciale Martin Kobler e chiedendo ulteriore tempo per negoziare. Il governo italiano è stato in prima fila nell’appoggio di questo accordo e si è detto pronto a “sostenerlo in maniera molto fattiva”, senza per questo escludere misure qualora l’accordo “si rivelasse fallace”. IS continua ad essere una minaccia ed è necessario contare sulla presenza effettiva di un nuovo governo. I nodi rimangono molteplici sia sul piano interno (come reagiranno le milizie più rilevanti?) sia sul piano internazionale (gli attori regionali sono finalmente allineati?).
La scommessa di Kobler (e dell’Italia) di Arturo Varvelli *
La firma dell’accordo per la creazione di un governo di unità nazionale in Libia non assicura l’uscita dalla crisi, ma dà un segnale importante in un contesto favorevole dal punto di vista internazionale: l’accelerazione politica da parte di ONU e Italia ha creato le condizioni perché la crisi libica tornasse sotto i riflettori. L’azione diplomatica appare comunque una scommessa: l’appeal del governo unitario può essere conveniente anche per eventuali oppositori, ma non avrebbe garantita l’integrità né l’incolumità sul territorio. A questo scopo è importante monitorare il comportamento dei militari libici e analizzare quali strumenti possono risultare più efficaci perché il governo possa mantenere un equilibrio positivo, altrimenti il rischio è di scenari forse peggiori di quello attuale.
La firma dell’accordo per la creazione di un nuovo governo di unità nazionale in Libia è certamente una notizia positiva. Tuttavia, dopo un anno di trattative condotte sotto l’egida delle Nazioni Unite, prima con il discusso rappresentante speciale Bernardino Leon e poi con Martin Kobler, questa firma non rappresenta affatto uno scontato passaggio verso l’uscita dalla crisi. I motivi di dubbio ed incertezza permangono e potranno essere parzialmente superati solo nelle prossime settimane. Ciò che si deve evidenziare è un chiaro cambio di strategia nella conduzione delle trattative: anziché procedere con l’approvazione del piano da parte dei due parlamenti – quello di Tobruk e quello di Tripoli che da ormai 16 mesi si contendono la legittimità – Kobler e le Nazioni Unite hanno imposto quello che vorrebbe essere un processo “bottom up”, ossia la raccolta di un centinaio (o comunque della maggioranza) di firme dei parlamentari dei due congressi, insieme a quelle di rappresentanti locali, elders tribali e membri della società civile. In teoria è una mossa opportuna che rovescia il potere di ricatto che milizie e leadership politiche prive di legittimità stavano imponendo al paese grazie alla necessità di ottenere un voto favorevole nei due parlamenti.
Questo passo nel processo di stabilizzazione è stato permesso da alcune condizioni internazionali favorevoli: una rinnovata enfasi sulla crisi libica, legata all’emergere dei gruppi legati al sedicente Stato Islamico e al suo proliferare in condizioni di anarchia insieme a una percezione di minaccia accresciuta del terrorismo islamico dopo i fatti di Parigi. Ciò ha comportato l’apertura di una nuova finestra temporale per le Nazioni Unite e per l’Italia, l’attore che maggiormente crede in una via negoziale alla risoluzione della crisi libica e che ha i maggiori interessi. L’endorsement americano – con la presenza di Kerry a Roma – ha favorito questa azione diplomatica fornendo il tempo (quanto?) utile alla costituzione di un governo prima che altre potenze – Gran Bretagna e Francia l’hanno già apertamente dichiarato – intraprendano un’azione militare per il contenimento di IS in Libia. Bombardamenti sul suolo libico compatterebbero, probabilmente attorno a IS, le milizie radicali che finora sono sembrate anch’esse piuttosto frammentate.
Nonostante ciò questa azione politica e diplomatica appare comunque una scommessa: la mancata cooptazione nella stesura dell’accordo di una serie di attori locali e di milizie che sono i realtà le reali detentrici del potere in Libia mette in dubbio la credibilità dell’accordo e la sua sostenibilità. La scommessa si basa principalmente sul fatto che l’appeal di un nuovo governo unitario riconosciuto e sorretto a livello internazionale possa stroncare eventuali gruppi oppositori, rendendo maggiormente conveniente essere parte del nuovo processo politico anziché rimanerne esclusi. In questo contesto sarà necessario trovare il prima possibile un accordo sulla sicurezza, perlomeno nella capitale, procedendo parallelamente all’accordo politico sui nomi del futuro governo. È certamente molto rischioso poiché il nuovo governo potrebbe instaurarsi a Tripoli senza alcuna garanzia della propria incolumità fisica, riproponendo spiacevoli incidenti vissuti nel recente passato, intimidazioni, minacce e rapimenti di rappresentanti politici, privando nuovamente di efficacia il governo libico. Scartata ogni ipotesi di “boots on the ground”, neppure nella forma di una missione internazionale con l’obiettivo di salvaguardare all’interno di un’area protetta le istituzioni politiche ed economiche del paese, non resta che vedere quale grado di consenso otterrà l’accordo. A occuparsi di questa questione lavorando a una mediazione tra le varie milizie sarà il generale italiano Paolo Serra, neo-incaricato per la sicurezza Onu.
Di particolare rilievo saranno le posizioni che terranno attori che hanno sinora sempre fatto la fronda ad ogni accordo: da una parte il generale Haftar che dovrebbe essere sostituito ai vertici dell’esercito libico per poter sperare in una convivenza con le milizie di Misurata, uno dei poli militari più robusti che il processo di negoziazione ha cooptato nella nuova sistemazione politica; dall’altra le forze “islamiste” della Tripolitania, un mix variegato di attori politici (il presidente del parlamento Abu Shamain), religiosi (il gran Muftì al Ghariani) e miliziani radicali (Salah Badi) le cui fondamenta non sembrano stabili ma che neppure è pensabile che improvvisamente gettino la spugna rinunciando a influenza politica e militare.
Su quale potere coercitivo potrà contare il nuovo governo? Come si potrà far rispettare il cessate il fuoco previsto dall’accordo? Tutti gli attori regionali lavoreranno a favore dell’accordo? Esiste un piano chiaro per ricominciare a creare uno stato libico unitario e creare nuove istituzioni funzionali e far ripartire il settore energetico? Queste sono solo alcune delle perplessità che contornano questo accordo che potrebbe riportare ad un percorso di riconciliazione il paese o potrebbe caratterizzarlo per uno scenario ancora più inquietante: un terzo governo costretto all’esilio nel caso i due esistenti, come possibile, non avessero alcuna intenzione di sciogliersi.
*Arturo Varvelli, ISPI Research Fellow and Head of Terrorism Program