Gentilezza: parola di molto fascino che rischia a volte di ridursi a termine debole, perfino insignificante. È indubbio, infatti, che l’essere gentili quando si vuole ottenere un risultato (un favore, per esempio), è assolutamente indispensabile, ma la gentilezza di cui vorremmo dire è altro…
(in apertura, attrib. Giotto: “San Francesco regala il mantello a un povero”)
Essa riguarda un modo di essere, uno stato interiore che prescinde da qualsiasi obiettivo materiale. Mi propongo, insomma, di attirare l’attenzione su un tema a mio parere fondamentale, in assenza del quale la gentilezza rischia di apparire una forma minore di conformismo sociale, una specie di paggio del “clima di opinione” come diceva Eric Vögelin, educatore e pensatore a mio parere molto acuto.
Viviamo circondati da vasti apparati portatori di stimoli di ogni genere che ci impongono un dispendio emotivo e psichico spesso superiore alle nostre possibilità. Si pensi a certa filmografia densa di violenza, brutalità e volgarità, oppure a fictions a buon mercato che nutrono fantasie di un mondo dove le relazioni personali assumono un irriducibile minimo di complessità e dove i problemi etici non presentano alcuna difficoltà intellettuale per affrontarli: quattro a favore e due contro e le questioni di vita e di morte sono regolate.
In più, le figure identitarie prevalenti sono, oggi come sempre, in fondo, i cosiddetti “influencers” e molte delle nostre reazioni emotive sembrano sempre più costituite da montaggi fittizi composti su esistenze morte o su inesistenze che formano il quadro di sistemi di relazione poveri e arbitrari, in grado, però, di raggiungere un numero di persone eccezionale quanto mai prima d’ora.
Questa situazione è peggio che sfuggire alla realtà, perché presentandosi essa stessa come un sostituto di quella, nega, della vita reale, piaceri e dolori e quindi crea individui impreparati all’incontro inesorabile con essi.
Come scrive acutamente Ugo Piazza in un suo intelligente libro (“Una generazione faccia in giù”, Gruppo editoriale NOVANTACENTO), “sui social manca l’esplicitazione del dolore”, qualcosa che pure è componente essenziale della nostra vita. E aggiunge:”…..La gestione della sofferenza, anche quella che diventa insopportabile, che ci sovrasta e travolge, ma che è indissolubilmente una componente della nostra vita, trova una sorta di inibizione comunicativa sui social media….”.
Una osservazione di rilevanza eccezionale, che raramente trova espressione in modo così chiaro nella comunicazione di ogni giorno, dove il dolore sembra dover essere ignorato come se fosse possibile eliminarlo semplicemente facendo appello a una presunta felicità implicita nel piacere.
Intendiamoci: il dolore non è un valore in sé. Troppo dolore distrugge e non a caso si dice “impazzire o morire di dolore”. Tuttavia, è il dispiacere, il dolore se si vuole, quello che ci induce a pensare, quello che suscita in noi una caratteristica, il pensiero, che ci rende capaci di far fronte alle evenienze della vita in modo più o meno competente. E a questo proposito, Ugo Piazza ricorda che le tragedie greche mettevano in scena proprio questa situazione dell’umanità.
“Al cor gentil reimpara sempre amore”
Questo verso di Guido Guinizelli, magistrato e poeta bolognese della metà del XIII° secolo che ogni studente italiano ha imparato a conoscere negli anni della sua adolescenza, potrebbe essere considerato il manifesto programmatico che inaugura quel particolare movimento tipicamente italiano che chiamiamo “dolce stil novo” della poesia volgare, ossia italiana alla sua origine. Forse basterebbe questa poesia di Guido per dissolvere almeno in parte le tante dicerie che una certa vulgata ha diffuso intorno all’oscurantismo medioevale.
In essa, gentilezza diventa sinonimo di un’altra nobiltà, la nobiltà dell’animo diversa da quella del sangue spesso macchiata dalla violenza delle armi. Non si è nobili solamente per diritto di nascita ma si può diventare nobili costruendo se stessi come persone intorno a un tratto, la gentilezza, che si costruisce, si conquista ed è opportuno e necessario si difenda ora dopo ora, giorno dopo giorno.
Difendere la gentilezza da chi o da cosa? La risposta è facile: da noi stessi naturalmente, e da chi altro altrimenti? Al fondo, l’idea che contribuire a diffondere la gentilezza come tratto costitutivo di ogni legame umano abbia in sé qualcosa che ci proietta al di sopra delle contingenze quotidiane è molto interessante. Non a caso i garanti dei legami fra gli uomini erano un tempo gli dei che noi abbiamo accompagnato alla porta, ma ai quali probabilmente non abbiamo ancora trovato sostituti validi.
Eppure, l’insistenza con la quale si propongono ideali positivi, coaching per fare un esempio come si usa dire, per ottimizzare la sicurezza di sé, il sentimento di autostima, il benessere e la “felicità”, e altro ancora su questa linea non potrebbe rivelare al contempo un qualche problema profondo?
Così, tornando al dispiacere appena ricordato, non a caso ci si propone come ideale la spensieratezza, quei fugaci momenti di benessere o quelle effimere condizioni in cui la vita ci appare solo gradevole, che vengono elevati a traguardi possibili, raggiungibili una volta per tutte. Un inevitabile residuo di insicurezza, invece, abita in ognuno di noi. Esso va preso per quello che è: un appello affinché qualcosa o qualcuno garantisca che siamo in grado di creare legami a cui affidarci e che potremo mantenerli al di là del fondo oscuro che ci abita, pronto a emergere per distruggerli se solo se ne diano le condizioni.
Primeggiare, prevalere, imporsi: la gentilezza e il Deuteronomio
Il sistema industriale, o se vogliamo tecnoscientifico-economico-pubblicitario, rivaleggia con il grande, antico sogno religioso appropriandosi della sensualità dei suoi riti e producendo una propria liturgia. Viene messo in mostra un mondo gentile, che non conosce padroni né schiavi, ma solo una fraternità planetaria, globale per usare un termine corrente.
Ma se noi guardiamo bene, sotto la maschera della felicità apparente vediamo permanere l’immortale, inesausta passione umana di vincere. Il rituale è chiaro: ci si affronta e si lotta per la vittoria per prevalere, per avere in pugno il comando e il controllo. Lo fanno le aziende, ma anche le persone per l’esercizio di quelle funzioni in cui si concretizza il potere, quello che un tempo era delegato più crudamente alle armi e alla amministrazione. Con una postilla: l’illusione, un po’ delirante cioè folle, che si possa comandare senza impedire, senza privare, senza deludere, senza frustrare insomma perché oggi il potere vuole essere amato non più temuto.
Forse la ragione sta nel fatto che noi tutti, in Occidente intendo, sappiamo che la voglia di primeggiare, di prevalere, di vincere come solo obiettivo senza tenere conto dell’esistenza degli altri ha un nome preciso nella nostra tradizione culturale: si chiama Caino, non proprio il modello di individuo sociale, di persona come la si intende fra di noi.
L’individuo sociale, la persona umana, è una istituzione, una costruzione che si impone alla nostra psiche come un’organizzazione eterogenea e incompatibile con l’istintiva sovranità di noi su noi stessi (massima aspirazione del soggetto umano dell’epoca ultramoderna). Troppo pessimismo? A me pare realismo al di là della pubblicità un poco facile di cui dicevo sopra.
In fondo molti romanzieri, russi e francesi in primis, hanno dimostrato fino alla noia che nell’umanità nessun personaggio è impossibile: assassini per benevolenza, suicidi per allegria, delatori per fervore, amanti eterni, ma adepti delle separazioni dopo un solo giorno e così via. Perché la nostra società, la società degli esseri umani, non è solo un insieme di individui, ma presuppone un legame in grado di resistere alla tentazione profonda della violenza per affermarsi a ogni costo.
La gentilezza come nobiltà d’animo è l’antidoto più sicuro perché amore è creare, coltivare un legame proteggendolo per mantenerlo, come si fa con qualcosa che vive, ma può anche morire. Detto altrimenti la difesa cui ho fatto cenno implica coraggio ossia un’etica e se pensiamo a Caino ci appare chiaro in cosa essa consista. Perché al fondo di ogni essere umano vi è qualcosa di profondamente inquietante che ora vi dirò.
Ogni civiltà, tutte senza alcuna esclusione, si fonda su alcune proibizioni. Quale la principale? La troviamo nel Deuteronomio come comandamento che è giunto fino a noi e che tutti conosciamo. Non uccidere è la risposta.
L’assassinio abita il cuore dell’essere umano che pensa a uccidere, ne fa materia di sogni, commemora gli assassinî in varie maniere. L’assassinio fa parte delle routines sociali e delle grandi messe in scena religiose e politiche che portano fino a noi, fino a oggi, la storia del genere umano: l’assassinio di Gesù di Nazareth, di Remo o di Cesare o ancora, a noi più vicino, di un Matteotti, di Aldo Moro o di John F. Kennedy.
E a ogni crimine commesso, a ogni assassinio, noi siamo toccati nel più profondo di noi stessi, nella nostra intimità più segreta, più oscura: il lampo di un breve istante e noi sappiamo che potremmo essere là, vittima o carnefice, in ogni caso un naufrago.
A ogni delitto, a ogni assassinio dobbiamo imparare di nuovo la proibizione di uccidere. E le società organizzano delle messe in scena dove si rappresenta il duello di tutti contro chi uccide perché l’insegnamento, l’intelletto, non può bastare. Occorre la dimostrazione, la messa in scena, dicevo, ovvero l’esempio. L’intelletto può anche essere integro, ma la mente malata: ricordate Macbeth?
Difendere il dovere della gentilezza è il compito etico più alto, oggi
Ma se gentilezza e nobiltà d’animo vanno insieme, in quest’epoca di massa dove all’insegna del “perché no” l’unica cosa illecita sembra essere la proibizione, difendere il dovere della gentilezza è forse il compito etico più alto che ci tocca, che tocca a ognuno che voglia sentirsi degno del nome di umano.
Siamo esseri eteronomi e ogni idea che faccia del “perché no” la chiave per aprire la porta di una libertà basata sulla volontà del singolo come misura della propria azione è una illusione. Una pericolosa illusione perché non ci proietta in un radioso futuro dove nulla si opporrà alle nostre pretese e che chiameremo progresso o libertà, ma ci avvicina pericolosamente al mondo delle fiere dove la regola è una sola: se non sei predatore sei preda. Con un ulteriore codicillo che ho già segnalato a varie riprese: le prede preferite dell’essere umano sono altri esseri umani.
Evitiamo di confondere l’esercizio dei propri doni intellettuali con il funzionamento della psiche, della mente che, è bene ricordarlo, è il luogo dove, sia per gli intelligenti e istruiti sia per gli altri, si confrontano in modo radicale l’amore imperioso di sé e la necessità del legame sociale che ci fa passare nell’ordine umano.
Mi ha sempre colpito questo breve racconto che devo a Jorge L. Borges e che uso a mo’ di conclusione. Caino e Abele si incontrarono nel deserto. Si videro da lontano perché erano uomini alti. Sedettero e accesero il fuoco per cuocere il cibo, in silenzio come chi è stanco alla fine della giornata. “Vorrei che tu mi perdonassi per averti ucciso”, disse Caino portando il cibo alla bocca. “Tu mi hai ucciso o io ho ucciso te?” chiese sopra pensiero Abele. Caino lasciò cadere il pane “Ora capisco che mi hai perdonato. Dimenticare è perdonare”.
Un qualche Dio ha dato all’uomo una chiave singolare che si chiama oblio: nello stesso tempo un modo per odiare, per annientare, ma anche per essere gentili, capire e perdonare. Basta volerlo, ma con decisa integrità.