Nel panorama inquietante di eventi violenti che ogni giorno si offrono alla nostra attenzione, ci hanno turbato alcune situazioni che hanno connotazione animalesca. Non sono più solo donne aggredite ma, ora, anche bambine distrutte, dilaniate con zanne ferine o con i loro prolungamenti, come coltelli, pugnali, accette o parti del corpo
Giovani vite dilaniate da coetanei (o quasi) con ferocia belluina mentre ancora vanno cercando se stesse in quella penombra che chiude il buio dell’infanzia e precede la luce di un’aurora che ancora non permette di delineare pienamente i contorni di ciò che ci attende.
Eventi violenti che danno sconcerto
Parlando, in sedi diverse, di fatti che turbano tutti, o quasi, nei giorni di questa estate, un’osservazione ritornava in modo troppo continuo per essere casuale e, inoltre, a prescindere da chi la stava facendo, trovava spesso donne o uomini concordi nel condividerla. L’osservazione suonava più o meno in questi termini: “Qualcosa di tremendo è accaduto, siamo d’accordo: però, attenzione, perché dobbiamo dare a questi ragazzi, anche se hanno agito così, un’altra opportunità”.
Lo devo ammettere, innanzitutto con me stesso: non sono d’accordo su questo argomentare che, forse sbagliando, trovo comunque molto strano. Per dir meglio: non concordo sulle priorità che queste parole mi sembrano suggerire. Intendiamoci: non sto parlando di pene atroci da infliggere quale attuazione di una legge del taglione sempre in agguato al fondo in ciascuno di noi, ma di una certa povertà di pensiero che mi sembra caratterizzi troppe persone in un tempo di esperti, sempre sorpresi e attoniti di fronte alle manifestazioni di una realtà così complessa da sfuggire troppo spesso al senso comune. Da qui mi pare discenda un rifugiarsi in stereotipi che finiscono per sfuocare la gerarchia dei fatti e banalizzare le cose.
Gli eventi violenti hanno una genealogia; ignorarla impedisce di comprenderne la natura
Come analista, in fondo, appartengo alla specie di quelli che si ripetono, di coloro che vanno ripetendo cose già dette, sia da me stesso sia da altri, cercando di cogliere, per quanto possibile, la realtà da diversi punti di accesso alla ricerca di un’unica meta finale: la verità.
Pretendere di poter dire la verità su fenomeni complessi come quelli che riguardano l’insieme di una società, di una cultura, di una civiltà, può sembrare presuntuoso. Tuttavia, se non prestiamo un’attenzione puntuale ai fatti che ci riguardano tutti e a come li trattiamo, rischiamo che siano poi quegli stessi fatti a occuparsi di noi, a volte piombandoci addosso in modo più o meno inatteso, sempre con il rischio di subire conseguenze di cui faremmo volentieri a meno.
Mi pare questo il caso degli episodi ai quali mi riferisco, quando una violenza ferina si scatena in modo animalesco, certamente non piovendo dal cielo con l’ultima tempesta di questi tempi di mutamento climatico, ma avendo precisi presupposti che ne fanno i figli di qualcosa.
Questi fatti hanno una genealogia e ignorarla impedisce di comprenderne la natura e le conseguenze, almeno in parte prevedibili.
La società umana vive di logiche e regole razionali che non prevedono eventi violenti
Una società di esseri umani non è solo un agglomerato di individui, ma una costruzione artificiale, un edificio normativo che discende da un testo fondatore, per esempio un dettato costituzionale, legato alla logica della specie.
Le regole, o meglio le leggi, costitutive del legame sociale dell’animale dotato di parola, l’essere umano, rispondono a una logica che ha le sue ragioni, cioè che è razionale. Infrangerle o comunque non rispettarle capita continuamente, abbiamo impulsi interiori difficili da governare, ma non è la stessa cosa che ignorare la razionalità da cui nascono le regole.
Questa razionalità esiste da molto tempo se non da sempre e le forme nelle quali essa si esprime ci sono trasmesse da chi ci precede nella vita, dalla loro autorità di antenati, in forma di leggi temporanee. Trasmettendocele, ci viene consegnata anche una responsabilità, quella di trasmettere a nostra volta innanzitutto la necessità che esista un mondo di regole affinché la società umana esista. Parlo quindi dell’obbligo morale di prenderci cura del mondo in cui viviamo e del modo in cui noi umani viviamo in esso.
I fatti de quo mostrano il pericolo di una disgregazione di questo edificio normativo causando così la decomposizione del legame sociale che da esso trae origine.
Se è anche solo possibile ritenere di poter agire in certi modi, lasciando libero sfogo a quello che più ci garba e quindi anche violentando, uccidendo e distruggendo, pensando di poter sfuggire a ogni responsabilità come i fatti che accadono sembrano suggerire, questo significa che l’idea delle regole che tengono insieme il tessuto sociale non percorre certe teste e che il concetto di un’autorità che ci detta razionalmente le regole del nostro vivere insieme non esiste. Forse occorre tenerne conto.
Quanto dico risalta in modo evidente sin dalla parola usata, ormai, correntemente, per definire coloro che agiscono in questi modi: branco, un termine tratto dal mondo degli animali.
Per contrastare eventi violenti, repetita iuvant: perché le leggi?
Nel corso delle peregrinazioni che gli forniscono il materiale per la sua “Inchiesta”, Erodoto notava la diversità delle singole leggi nei Paesi che egli visitava e faceva alcune considerazioni al riguardo: quegli stessi che hanno l’abitudine di mangiare il cadavere dei propri morti (gli Sciti mi sembra di ricordare), egli scrive, si rivoltano orripilati all’idea di cremarli come usavano invece i Greci. I quali, dal canto loro, mai avrebbero adottato i costumi degli Sciti. Tuttavia, questo è il punto centrale, la relatività delle leggi si accompagna, presso gli umani, a un dato universale: la proibizione.
Essa dà luogo a quel corpo di regole che noi occidentali chiamiamo il diritto, un insieme di dettati, uguali per tutti, a cui tutti devono sottomettersi come a un’autorità indiscutibile. Altra è la questione del modo in cui questa autorità viene esercitata da chi, pro tempore, la impersona e questo vale per tutte le “autorità”: per i governanti, per i magistrati, e vale anche per i genitori.
Tutti, credo, hanno sentito parlare più o meno del complesso di Edipo. Il modo in cui esso viene narrato correntemente risente di un’impostazione fra il grottesco e l’umoristico, con qualche strizzata d’occhio a certi aspetti un poco grossolani che ne fanno una sorta di caricatura buona per farsi quattro risate fra amici. Non è affatto così.
La tragedia di Sofocle dalla quale parte Freud, l’inventore della psicoanalisi, narrando a modo suo una vicenda mitica della Grecia antica, esprime qualcosa di molto profondo e universale che va al di là della sua forma contingente: dice, in breve, che i legami sociali e quelli di sangue sono in competizione. Nel linguaggio della psicoanalisi, che vi è un conflitto fra ciò che va sotto il nome di “pulsionale”, genericamente le spinte della materia, e la nostra necessaria collocazione sociale. Il motivo è semplice: perché una società esista, ogni essere umano deve sottostare al dominio di leggi generali e astratte che valgono per tutti allo stesso modo, al di là dei legami affettivi.
La società umana si basa sul presupposto di una legge uguale per tutti e non sulle preferenze per questo o quello, che pure esistono, ma all’interno del sistema fornito dalla legge. Spezzare il legame sociale equivale quindi, dal punto vista simbolico, a ritornare al prevalere dei legami di sangue, ossia in definitiva a legittimare la visione animalesca del vivere che caratterizza il neonato.
Chiariamo: ignorare, per volontà o per vera ignoranza, il principio logico che rende necessari i limiti indicati dalla proibizione, pensare alle regole, alle leggi come qualcosa di cui si può fare a meno perché limitano la libertà alla quale ognuno aspira, non ci rende più liberi ma ci fa retrocedere all’animale da cui proveniamo, al neonato che, come qualsiasi altro cucciolo, non fa altro che vagire o strillare, nutrirsi, dormire ed evacuare. Se vogliamo essere più precisi, occorre, però ,dire che anche nel mondo animale, nel mondo del branco dunque, vi è una regola (non la legge che prevede appunto qualcosa di leggibile ossia di scritto), molto semplice peraltro: se non sei un predatore sei una preda e, come ho già avuto modo di scrivere, le prede preferite dell’essere umano sono altri esseri umani.Un caso abbastanza unico.
Il soggetto umano non è solo biologia e materia, ma anche legame sociale
Si parla di soggetto umano per dire che non siamo solo biologia, materia. Non tutti sono d’accordo su questa visione degli esseri umani. Esiste da sempre l’idea dell’essere umano come una macchina, e attualmente, sempre più si tende anche a sovrapporre a questa idea il modello biologico della relazione “naturale”, fatta di circuiti nervosi, cerebrali, che ispira una specie di darwinismo sociale che sperimentiamo quotidianamente per esempio nella forma del tutti contro tutti affinché prevalga chi è capace delle prestazioni migliori in ogni campo, fisico o intellettuale.
Il messaggio, un poco alla “Guerre stellari”, suona pressappoco: “Che la forza sia con voi”. La forza, non la legge ossia la ragione. Quella forza che si può scatenare se solo non trova impedimenti. E il primo e più importante impedimento è il legame sociale.
Esso, ossia l’istituirsi dell’individuo sociale, quello che gli psicoanalisti, ma non solo, chiamano il soggetto umano, la persona insomma, con le limitazioni che questo comporta rispetto all’onnipotenza infantile del “faccio quello che voglio”, si impone alla psiche come una organizzazione che le è del tutto estranea. La nostra psiche, all’inizio del suo formarsi nel bambino dei due sessi, vive come una violenza le limitazioni imposte dalla necessità di tenere conto dell’esistenza degli altri, poiché in fondo a questo si riduce il legame sociale.
Nel linguaggio della psicoanalisi, questo si esprime in un modo del quale si sente spesso parlare anche se non sempre in forme comprensibili. Si parla di problemi narcisistici per indicare che fra il sentimento profondo del piccolo umano di essere al centro del mondo e le necessarie relazioni con altri esseri umani che fanno di ognuno di noi uno fra i tanti, vi è un contrasto continuo.
Rispetto alla logica razionale che sostiene il legame che fa degli esseri umani una società, rispetto a questo principio di ragione si potrebbe anche dire, non siamo affatto beneficiari di una rendita di posizione, ma dobbiamo difenderne continuamente l’esistenza, con le unghie e coi denti se necessario, innanzitutto da noi stessi. Questo implica una responsabilità pesante: quella di trasmettere oltre nel tempo, ai figli, noi stessi figli di chi ci ha trasmesso qualcosa, il lascito che abbiamo ricevuto. In questo non abbiamo alternative.
Trasmettere ciò che ci hanno trasmesso: non ci sono alternative
Innanzitutto, la proibizione, come scriveva Erodoto. Essa costituisce il filo rosso che collega fra di loro tutte le manifestazioni sociali dell’animale che parla. La regola che distingue il possibile come permesso dall’impossibile come proibito è una cornice che fonda il campo degli umani come quello di chi sa che occorre frenare la tendenza animalesca a fare il proprio comodo.
Nel nostro mondo occidentale, questa necessità della proibizione ha un nome preciso: la chiamiamo Padre. Nessun riferimento sessuale poiché si tratta di una finzione giuridica che rinvia a una funzione razionale: questo sì, ma quest’altro no. Non si tratta di patriarcato o di paternalismo, manifestazioni che hanno gradatamente perso il riferimento alla razionalità della parola originaria, perché qualunque soggetto umano, maschio o femmina che sia, è bene in grado di indicare cosa sì e cosa no, cioè di permettere e di proibire. Darle dei limiti, forza la psiche ad accettare la necessità di un quadro che contenga, che imponga una misura e la formula della nostra libertà sarà allora: all’interno del quadro a modo mio. Ognuno a modo suo ma all’interno di un quadro di regole, le leggi, generali e astratte, che valgano per tutti, maschi e femmine, allo stesso modo.
La libertà è solo una fantasia
Tutti aspiriamo alla libertà, ma poi pochi sanno veramente usarla in modo corretto. Meglio: sappiamo usarla abbastanza poco, in genere. Forse vi è più di un granello di verità nel titolo che Luis Buñuel diede a un suo famoso film degli anni ‘70 del secolo passato :”Il fantasma della libertà”. Forse veramente la libertà è solo una nostra fantasia. In fondo, siamo esseri completamente eteronomi: ecco un altro modo di parlare del narcisismo offeso.
Eteronomi, mutuo il termine da A. Supiot, perché a nessuno di noi è mai stato chiesto il permesso di metterci al mondo. La vita ci è inflitta come scrivono lo A. Supiot e P. Legendre. Allo stesso modo, a nessuno di noi è mai stato chiesto il permesso per insegnarci a parlare. Parliamo la lingua materna, si dice, perché la parola è stata messa dentro di noi, insegnata nostro malgrado, un segno che qualcuno ha messo “in”, dentro di noi segnandoci per sempre. Il segno della madre, della materia, quindi ,ma che ci permette di elevarci sopra di essa parlando, ossia diventando capaci di riflettere a noi stessi e agli altri.
Senza questo segno imposto dall’esterno come una legge, nessuno di noi riuscirebbe ad andare oltre i vagiti e gli strilli senza significato (non senza senso) del neonato, nessuno potrebbe parlare liberamente. O almeno tentare di farlo.
Piccole considerazioni conclusive
La regola, la legge ossia la regola enunciata, detta e scritta affinché tutti prendano atto della sua esistenza, al di là delle sue manifestazioni contingenti nel tempo e nello spazio, è una necessità che permette la creazione di legami ossia l’esistenza stessa della società degli esseri umani.
E allora, da ripetitore mi ripeto: la libertà dell’animale che parla, che noi chiamiamo uomo, dei due sessi, non consiste nella formula: “faccio quello che voglio”, bensì in quella più complessa che recita pressappoco : “in questa cornice, a modo mio”.
Questa formula esprime la consapevolezza della necessità di un quadro di contenimento alle spinte animali che sono alla base del nostro esistere in quanto esseri biologici. Animali come gli altri, ma anche unici: noi siamo animali che parlano. Lo segnalo perché la libertà senza limiti non può esistere. Non porsi limiti non significa essere più liberi, ma regredire alla nostra base biologica, alla nostra origine animale.
Mi pare che, in questo modo, si possano forse capire meglio certi accadimenti tragici.
Questo comporta un problema ulteriore perché muoversi secondo ragione, saper parlare, significa avere l’autorità che un tempo era affidata alla lancia e alla spada e oggi ancora, ma fra gli animali, ai denti e alle unghie.
Ribadisco: nel mondo animale da cui partiamo non vi può essere legge.
La legge richiede di essere scritta per poter essere appunto “letta” (anche se per alcuni l’origine del termine non è nel latino lex ma nel norreno “lag”), mentre la sola regola del mondo animale è quella che lega predatore e preda.
Se l’autorità, per qualsiasi motivo, viene meno, anche la regola come necessità razionale ne subirà le conseguenze. Verrà sentita solo come imposizione che lede il nostro narcisismo e di cui non si terrà gran conto.
Come accade appunto a tante vittime di atteggiamenti prevaricatori che le ultime vicende di cronaca ci hanno consegnato e da cui ho preso le mosse per questa breve esposizione.
Ultime vittime in ordine di tempo, poiché è certo che altre continueranno a seguire secondo un copione che prevede sconcerto ed esecrazione da un lato, ma un certo rifiuto di considerare i fatti secondo una genealogia dall’altro.
Un’occasione per approfondire il tema
Il prof. Giorgio Landoni approfondirà il tema trattato in questo articolo nella giornata di studio “Un problema sociale: la depressione”, organizzata dalla Sezione Milanese della Società Italiana di Clinica Psicoanalitica, l’11 novembre prossimo, dalle 9 alle 18, a Palazzo Castiglioni, Sala Colucci, corso Venezia 47/49. Ingresso libero ma prenotazione obbligatoria scrivendo a sicp.milano@gmail.com
Il titolo dell’intervento del prof. Giorgio Landoni è: “Distruzione del tempo genealogico e decmposizione del legame sociale”