La mia storia:
Cinque magliette bianche. Questo c’è dentro quell’armadio verde anonimo. E io devo scegliere solo tra quelle cinque magliette bianche a manica corta. Una è con il collo a v e ho scelto quella. Tutto quello che quella donna possiede sono cinque magliette. Il suo bagaglio: cinque magliette. Niente mutande, ci sono quelle a rete per contenere i pannoloni. Niente calzini, è allettata e non scenderà mai dal letto. Niente pigiami, suda sempre. Entra la luce anche in quella camera, nonostante tutto. Sembra troppo grande quel terzo dei cinque letti per poterci abitare. Troppo lungo e troppo largo. E poi sarà per il colore rosso vernice, sarà per le spondine a graticola, pare quasi giacere in una di quelle cassette di plastica per la frutta che si compra a buon mercato, tanto al chilo, ma non per questo meno buona, anzi magari più sana. E’ la testa quella che desta più attenzione. Girata all’insù, con il collo tirato all’inverosimile e leggermente chinata verso sinistra. Come quando da bambini si guardano i fuochi d’artificio, ci si stanca ma non si vuole dare una pausa ai muscoli del collo e la nuca fa male. Gli occhi guardano sbarrati ancora più in alto e quindi la testiera del letto e ancora oltre il muro bianco leggermente strisciato dagli spostamenti del letto. Le palpebre non hanno ciglia. La bocca è chiusa e sottile e la pelle è bianca e levigata. I capelli non sono bianchi ma grigi e brizzolati. La mia collega mi ha riferito che la figlia non viene quasi mai. Una volta ogni due mesi circa. Le ho risposto, convinto, che è difficile giudicare, che bisognerebbe sapere le situazioni personali ma lei mi ha risposto che ha sempre fatto così perché dice di non sopportare l’idea che sua madre sia lì dentro, sia in quella situazione e che possa rimanerci ancora a lungo. Ma la treccia no, la treccia non deve essere mai tagliata, ordine suo, e si raccomanda che sia sempre ben pettinata. Verrà trasferita di stanza e ho dovuto preparare le sue cose per il trasferimento. La treccia da un aspetto strano alla sua immagine. La ringiovanisce, la rende un po’ buffa, quasi fanciullesca. Ci sono rimasto male quando mi hanno detto che a volte risponde a cenni con il capo. Non pensavo intendesse quello che le si dice. È immobile, rigida, accorciata. Ma a volte capisce. La camera è grande e quando apro la porta completamente buia, mi da un senso di vuoto, così accelero il passo fino in fondo, cerco le corde delle tapparelle. Le finestre sono grandi ed entra molta luce. Mi viene da dire che è una bella giornata ma non interessa a nessuno. Eppure il sole entra anche in quella stanza. Anche se le tapparelle non si possono alzare fino in fondo altrimenti restano incastrate. Un foglietto scritto a mano e appeso vicino ad una corda lo ricorda a tutti i colleghi. Ho messo tutto dentro un sacchetto di plastica azzurro smorto opaco. Tutto quello che possiede, tutto quello che si porta dietro quello donna è dentro quel sacchetto. Ho pensato a quanti oggetti possiedo. Quante cose ho. Quante cose sono mie, solo mie, perché le ho comperate, con i miei soldi, le ho volute io, mi piacciono, e dentro ognuna di loro c’è un po’ di me, del mio denaro, del mio lavoro, del mio tempo. Mie, perché le ho desiderate e possedute, mie perché, tutto sommato, sono anche un po’ parte di me. Ho iniziato da quelle grandi, maggiori per spesa d’acquisto come l’auto, la bici, a tutto il resto, passando per vestiti, articoli sportivi, libri, cd, elettrodomestici. Mi sono fermato prima di mille. Oddio. Mi è venuto un dubbio. Non sono nulla. Non significano nulla. Domani verrà trasferita e non avrà niente, anzi, cinque magliette bianche, con il numerino cucito dietro, per distinguerle in lavanderia. E il resto? Dov’è il resto? Avrà sicuramente più di ottanta anni. Chissà quali e quanti sacrifici, avrà fatto anche lei per avere le sue cose. E non ha niente? Ma come è possibile? Sento che non mi basta la risposta che la malattia e il tempo le hanno portato via tutto. E neanche la frase: ecco cosa siamo. Siamo molto di più! Ne sono certo. Ma mi fa paura. Un po’ ci penso. Un po’ continuo a sbagliare. Un po’ cerco di capire cosa. Ma dentro, mi resta il dubbio. E intanto continuo il mio lavoro. E ci penso. La mia collega mi chiama. Torno un attimo indietro. Mi abbasso e le do il mio bagaglio: una semplice carezza anche malfatta. Cinque magliette e una carezza.
La foto qui inserita è di Auro Sissa, della Casa di Riposo Cremona Solidale, primo classificato al Concorso Tena come migliore immagine.
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posso dire solo che hai scritto una storia davvero toccante e ricca di valori e cose vere nonchè ticcanti e profonde...complimenti