Approfondimento Ispi: l’eredità di Barak Obama

A differenza dei precedenti discorsi, nel settimo e ultimo Stato dell’Unione Barack Obama non si è tanto concentrato sul 2016, ma ha cercato di tracciare l’eredità della sua presidenza guardando ai «prossimi cinque, dieci anni e oltre». Il Presidente ha toccato vari punti, dall’economia alla politica estera, sottolineando come gli Stati Uniti oggi non siano una potenza in declino; al contrario, ha rivendicato la leadership globale di Washington che, forte di una solida ripresa economica e della rivoluzione energetica, ha le carte in regola per continuare a giocare il ruolo di egemone. Una supremazia nel sistema internazionale, questa, che però deve essere esercitata «senza diventarne il poliziotto», ma, a partire dalla lotta al terrorismo, con «un approccio più intelligente, una strategia paziente e disciplinata che usa tutti gli strumenti» del potere americano. Obama ha poi ribadito la priorità della lotta al cambiamento climatico, chiedendo al Congresso di non ostacolare le riforme green che la sua amministrazione sta portando avanti. Infine, analizzando le questioni interne, il Presidente si è rivolto a tutta la classe politica invitandola, in un’era di forte polarizzazione partitica, all’unità di fronte all’avanzata trasversale del populismo.

Una debole leadership nella lotta al terrorismo

di Mario Del Pero

Era uno degli ambiti dove sarebbe dovuta essere più marcata la discontinuità con le politiche dell’amministrazione Bush. Dove la promessa di Obama di modificare pratiche e discorso dell’azione internazionale degli Stati Uniti si sarebbe realizzata in modo netto e, soprattutto, visibile. È invece divenuta – la campagna globale e infinita contro il terrorismo nella quale gli Usa sono impegnati ormai da 15 anni – tema sul quale sembrano esserci maggiori convergenze tra l’amministrazione Obama e quella che l’ha preceduta. Non a caso, le misure adottate nella War on Terror – che a lungo hanno ottenuto un ampio sostegno tra l’opinione pubblica del paese – sono state spesso additate dai liberal e dalla sinistra del partito democratico come esempio negativo dei compromessi accettati da Barack Obama: come simbolo di una politica estera e di sicurezza poco coraggiosa, pronta a barattare principi e sensibilità costituzionali con consenso e vantaggi politici contingenti. Le denunce delle più importanti organizzazioni per la difesa dei diritti civili – a partire dall’American Civil Liberties Union (ACLU) – si sono fatte negli anni più frequenti e intense, prendendo di mira di volta in volta la mancata chiusura del carcere speciale di Guantanamo, l’utilizzo intenso dei droni nel colpire sospetti terroristi e l’ampia e intrusiva azione di spionaggio e monitoraggio delle comunicazioni promossa dalle diverse agenzie d’intelligence.

Ma è davvero così? Le somiglianze e continuità con gli anni di Bush sono così marcate? Qualsiasi giudizio sconta la carenza d’informazioni in un ambito così delicato come quello dell’intelligence e dell’anti-terrorismo. Poco o nulla sappiamo, ad esempio, delle procedure utilizzate nella selezione degli obiettivi dei droni, della discussione che la precede e delle conseguenze di tale azione, misurate anche solo semplicemente in termini di risultati e di vittime, civili e non. Se una qualche traccia documentaria sarà preservata, ad occuparsene saranno tra qualche decennio gli storici. Per ora, ci si affida all’opera meritoria di chi – come alla New America Foundation – cerca di offrire stime e dati comunque aleatori e non del tutto attendibili1. E ci si deve accontentare di rilevare i tanti chiaroscuri dell’azione contro il terrorismo dell’amministrazione Obama, le novità introdotte così come le indubbie somiglianze con il periodo bushiano.

L’azione contro il terrorismo promossa dopo il 2008 è poggiata su tre pilastri fondamentali. Il primo è il definitivo abbandono, e la pubblica denuncia, dei metodi più controversi e contestati degli anni di Bush, rendition e utilizzo di forme aggressive d’interrogazione su tutti. Il secondo è lo scetticismo nei confronti di uno strumento militare che – laddove dispiegato incautamente – aveva rivelato tutti i suoi limiti e verso il quale una maggioranza dell’opinione pubblica statunitense continua a nutrire uno scetticismo alimentato anche dal fallimentare intervento in Iraq. Il terzo – portato in una certa misura degli altri due – è il dispiegamento della superiore tecnologia statunitense in un’azione mirata e selettiva, finalizzata ad eliminare le tante leadership locali di Al-Qaeda, riducendo al minimo i rischi per gli Usa e i loro soldati. L’utilizzo, estensivo e crescente, dei droni ha prodotto una politica di assassini mirati di nemici degli Stati Uniti quale non si vedeva probabilmente dagli anni Sessanta. Essa ha permesso, in teoria, di decapitare i vertici delle cellule terroristiche e di colpirne la manovalanza, evitando al contempo nuove incarcerazioni di terroristi o sospetti tali che avrebbero reso ancor più complicata la gestione e la promessa chiusura di Guantanamo.

Il sostrato discorsivo che ha accompagnato e informato quest’azione paradossalmente accetta, e in un certo senso congela, uno degli assunti più controversi delle politiche di sicurezza post-11 settembre: l’idea cioè di trovarsi in una condizione di guerra (sia pure a bassa intensità) permanente e illimitata. Se con Bush, questo discorso era inizialmente servito per legittimare progetti ambiziosi e interventisti, centrati sulla promessa di una sconfitta definitiva dell’avversario, con Obama, invece, esso è utilizzato per giustificare azioni mirate e circoscritte, al servizio di una strategia di riduzione e contenimento della minaccia terroristica, incarnata da Al-Qaeda e dalle sue tante filiazioni o, in tempi successivi, dall’ISIS. Su questo aspetto, la differenza tra i due approcci rimane sostanziale. Per essere pienamente sostanziata, la svolta di Obama aveva però bisogno di essere integrata dal pieno ripristino di quel prestigio, quel soft power, degli Usa presso l’opinione pubblica internazionale che era stato largamente dissipato durante gli anni di Bush. Qui, però, il corto circuito è stato immediato e, forse, inevitabile. Come si è ben visto nel caso Snowden e nella vicenda delle intercettazioni, vi è un mastodontico apparato burocratico che agisce da tempo per inerzia più o meno propria e che è assai difficile porre sotto controllo. Costrizioni politiche stringenti e, anche, timidità e debolezze presidenziali hanno impedito di dare corso a provvedimenti (e promesse) – su tutte la chiusura di Guantanamo – indispensabili per offrire un messaggio diverso e riconquistare “i cuori e le menti” perduti in passato.

Gli effetti e i danni collaterali prodotti dai droni sono difficili da valutare, anche se diversi studi rivelano come essi abbiano causato un numero non marginale di vittime civili e, soprattutto in Pakistan, alienato quelle popolazioni locali che s’intendeva riconquistare. E mentre gli studiosi di diritto internazionale s’interrogano sul pericoloso precedente creato da questo nuovo tipo di guerra, la campagna contro il terrorismo di Obama rivela una volta ancora il dilemma con il quale i presidenti degli Stati Uniti si sono dovuti confrontare in modo crescente nell’ultimo mezzo secolo. La difficoltà, cioè, per il soggetto egemone dell’ordine mondiale di conciliare quel doppio consenso – interno e internazionale – necessario all’esercizio pieno, coerente ed efficace della propria leadership. Su questo, Obama ha evidentemente fallito. Ovvero si è trovato a fronteggiare ostacoli in ultimo insormontabili, come rivelano le percentuali largamente maggioritarie di americani ancor oggi ampiamente favorevoli all’uso dei droni a dispetto dei suoi rischi ed effetti collaterali o risolutamente ostili a trasferire in carceri statunitensi i prigionieri di Guantanamo (sono oggi 107, per 48 dei quali è già stato autorizzato il rilascio).

Mario Del Pero, Institut d’études poliques/SciencesPo, Parigi

 

Per maggiori approfondimenti: Ispi

redazione grey-panthers:
Related Post