3 gennaio 1954, arriva in Italia la televisione: così è cambiata la nostra vita
Il documentario di Ermanno Olmi, con il sociologo Sabino Acquaviva, raccoglie le voci di persone comuni al loro primo incontro con la TV, che ha rivoluzionato, nel bene e nel male, il nostro vivere
Docidi puntate, realizzate nel 1979 dal maestro Ermanno Olmi con la collaborazione del sociologo Sabino Acquaviva e la regia di Marcello Siena, nel documentario “Quando è arrivata la televisione“ mettono insieme le testimonianze di tutti gli strati sociali in molti contesti geografici e culturali diversi all’epoca dell’arrivo del piccolo schermo 25 anni dopo la sua diffusione. Le puntate sono organizzate a gruppi di due, dove nella prima si gira in esterni e si intervistano i protagonisti nella loro vita quotidiana e nella seconda si riuniscono gli stessi per rivedere il girato e approfondire le tematiche sollevate, cercando di capire sostanzialmente se davvero l’avvento della tv ci ha reso migliori o se invece non ci ha condannato a una nuova solitudine condivisa con il miraggio di migliorare la nostra esistenza.
Tutte le immagini di questo articolo sono tratte dal documentario “Quando è arrivata la televisione”, disponibile su RaiPlay
La tv e l’Italia nel documentario di Olmi
Colli a punta, pantaloni a zampa d’elefante, fruscii di velluto e ciniglia, occhiali osso di tartaruga, maglioni a rombi, merletti centrotavola, volti di contadini scavati dalla fame accanto a donne perennemente velate di nero sempre intente a sgranare un rosario nelle campagne assolate del Meridione, personaggi pasoliniani accanto ad amministratori della cosa pubblica, impiegati, artigiani, e ancora il ceto medio, quella borghesia urbana che si stava ammassando nelle grandi città. Anche le ambientazioni sono le più disparate, dalle campagne di Manfredonia al sobrio Caffè Pedrocchi di Padova, dal condominio milanese di Piazza Velasquez alla masseria rurale a Spello. Da questi spaccati della società che vede nascere la tv in bianco e nero e poi, nel 1977, quella a colori gli intervistatori si sentono dare quasi sempre risposte ricorrenti: con la tv si apre una finestra sul mondo, si minimizza il gap culturale e linguistico anche a rischio di quella incomunicabilità e alienazione che Olmi e Acquaviva sentono come pericolo incombente sempre in agguato. Il dirompente impatto sulle esistenze di individui e famiglie, cambiando città e persone produce le stese parole d’ordine: informazione, propaganda, educazione, intrattenimento: in una parola cultura di massa.
Ma la tv ci ha cambiato in meglio o in peggio? Difficile un verdetto univoco dalle interviste a tutti i livelli sociali che, ribadiscono più volte gli ideatori, non vogliono assurgere a statistica ma sono solo uno spaccato del paese. Una cosa è certa: ci ha cambiati e il bilancio dopo un quarto di secolo dall’avvento di questo media così invasivo per alcuni aspetti ma anche così sorprendente per altri pare in positivo. Volano del miracolo economico che ha caratterizzato il dopoguerra, strumento di emancipazione, contrasto ad arretratezze ataviche, ha colonizzato i nostri sogni, allargato i nostri orizzonti chiedendoci a contropartita un po’ della nostra umanità in un continuo gioco di rimandi che diventa a lungo andare indistinguibile e si perde come un rumore di fondo.
Nell’ultima puntata Olmi affida alla voce fuori campo una possibile risposta alla domanda che pone agli ultimi convenuti, se cioè non fosse arrivato il momento di superare la prima fase di stupore per entrare in quella più matura di consapevolezza e di risoluzione dei problemi sorti dall’essere diventati cittadini globali ormai videodipendenti: “anche con la tv in questi anni, si è cercato di ridare senso alla vita. In realtà non possiamo chiedere alla tecnica ciò che essa non ci può dare”.
Olmi e la tv
Questo è senz’altro l’accorata preoccupazione che ha costellato tutta la parabola poetica del maestro bergamasco scomparso il 7 maggio 2018 a 86 anni nella sua amata Asiago. E’ stato testimone attento di quelle trasformazioni che ci hanno, a suo modo di vedere, disumanizzato e allontanato dallo stato di natura. Si pensi alla poetica della vita contadina alla fine dell’Ottocento nei film L’albero degli zoccoli del 1978 (palma d’oro al Festival di Cannes), al rapporto col Mistero ne La leggenda del santo bevitore (1988, Leone d’oro), alla violenza dell’uomo sull’uomo nel Mestiere delle armi (2001). Ermanno Olmi ha cominciato e finito la sua carriera con il documentario: “la macchina da presa – ha detto in una intervista- è un occhio che scova realtà invisibili. La mia è stata un’esistenza all’insegna della sorpresa: abbiamo pensato che diventare ricchi, uscire da millenni di povertà potesse essere il toccasana in grado di risolvere tutti i nostri problemi”. Una verità che ci interroga ancora oggi, e con cui noi, cibernauti forse più liberi di un tempo ma in un mondo sempre più tecnologicamente insidioso, siamo continuamente costretti a fare i conti.