È grazie alla radio che Jean Rondeau ha conosciuto, a soli sei anni, il clavicembalo – uno strumento che non aveva mai visto né ascoltato prima, ma il cui suono lo ha immediatamente folgorato.
Ora, sul clavicembalo del Castello d’Assas – nel sud della Francia -, uno strumento mitico sul quale il grande Scott Ross ha realizzato numerosi dischi, e sopratutto la monumentale integrale (ben 34 cd) delle Sonate di Domenico Scarlatti – Jean Rondeau, dopo un primo cd dedicato a Bach, ha registrato Vertigo, vertiginosa composizione di Pancrace Royer – un contemporaneo di Rameau ma molto meno conosciuto di lui – una musica inquietante, travolgente, che «non si sa se annunci la fine di un’epoca o l’inizio di qualcosa d’altro …».
E, per una volta, le immagini – meravigliosamente realizzate – non sono superflue per ricondurci, ad occhi aperti, agli splendori di un epoca che il clavicembalo ha abitato e decorato delle sue più sfolgoranti luci.
Claudio Monteverdi: Amori di Marte
Accademia del Piacere, Fahmi Alqhai, Juan Sancho: tenore, Mariví Blasco: soprano – Alqhai&Alqhai (65’27)
La maggior parte dei capolavori della musica classica, e particolarmente quelli più conosciuti e frequentati del repertorio barocco, sono vittime delle «memorabili interpretazioni» che si incrostano e li soffocano, condannandoli ad un ruolo – nel migliore dei casi – di splendide pagine patinate di calendario, o – nel peggiore – di lucide cartoline, e che di questi supporti esibiscono la labile visibilità e subiscono la patetica decadenza.
È di questi ultimi tempi, grazie a una non so qual coincidenza astrale, una magica rivoluzione che beneficamente interviene a ridar vita ai capolavori in questione, risvegliandoli dalla malefica paralisi, fornendo loro una nuova, inattesa e sorprendente vita. È il caso del Vivaldi di Simone Toni di cui vi ho parlato in gennaio, ed ora di questo splendido cd dedicato ad alcune delle più belle pagine di Monteverdi. Non è la prima volta che l’Accademia del Piacere mi sorprende con le sue geniali interpretazioni: allucinanti visioni sembrano socchiudere la porta della stanza ove il compositore, lontano da tutti e da tutto, crea la sua opera. È come ascoltare una musica prima ancora che si fissi sullo spartito, prima che le note vengano definitivamente attribuite agli strumenti che circondano la voce, lo strumento primo per Monteverdi.
Tutto il fascino è soprattutto nella materia sonora, di meravigliosa ricchezza, dell’ensemble che Fahmi Alqhai dirige ed anima alla viola da gamba, ed il Combattimento di Tancredi e Clorinda – il pezzo forte del disco – vibra come una cronaca «in diretta» del drammatico tenzone che Monteverdi ha tratto dalla Gerusalemme liberata (ancora una guerra di religione ed un conflitto di sessi complicato dal travestimento, con la donna che del maschio assume il bellico costume e l’attitudine guerriera, sino al catartico finale; mi sono spesso domandato perché questo capolavoro non è diventato un manifesto dei movimenti di liberazione …).
L’aspetto drammatico ed estremamente teatrale dell’opera, l’inatteso inizio del combattimento, e lo sviluppo dell’azione, che l’autore aveva rinforzato con indicazioni sceniche sull’alternanza dei momenti molli e concitati, sono resi con sorprendente vitalità. Arciliuto, tiorba e chitarra barocca sono in bella evidenza, assieme alle percussioni di Pedro Estevan, e creano uno spazio denso di azione e di emozioni, illuminato dalle fosche luci di torce e candelieri.
Completano il programma – che opportunamente inizia con la vibrante Toccata di apertura dell’Orfeo – altre composizioni strumentali e vocali di Monteverdi come il Lamento della Ninfa, Tempro la cetra, Et è pur dunque vero e la Sinfonia avanti il prologo del Ritorno d’Ulisse in patria, e – in guisa di intermezzo e conclusione – il Passacallo dalla Sonata op.XXII di Biagio Marini e la Sonata à 6 violis di Antonio Bertali. Una pura delizia.
Segno di rispetto, particolarmente apprezzato, per le origini delle musiche in programma, il libretto propone la traduzione italiana degli interessanti testi di J. A. Vela del Campo, Pablo J. Vayón e Manuel García.
Joseph Haydn
String Quartets opus 50 – Quatuor Zaïde – NoMadMusic (1h41’06)
Credo che la caratteristica che più comunemente definisce Franz Joseph Haydn per i suoi interpreti è il senso dell’umorismo, la sua capacità di «raccontare» in musica, di dar gioia a chi suona senza peraltro distrarlo dagli sviluppi della composizione, di moltiplicare le occasioni per le battute, per una sorta di storielle musicali (talvolta esplicite, come nelle sinfonie Les adieux o Il rullo di timpani). Prima o poi l’interprete se ne rende conto e suonare Haydn diventa un nuovo piacere, sopratutto quando l’interprete sa trasmettere questo divertimento, raccontare, sorprendere, coinvolgere un pubblico che non sempre s’attende di ridere andando ad ascoltare un concerto, e sopratutto il concerto d’un quartetto d’archi.
È il caso di questa riuscitissima edizione dell’Opus 50. «Abbiamo registrato questo disco per mostrare che la musica classica non ha bisogno di essere seria per essere grande – ha detto Charlotte Juillard, primo violino del Quartetto Zaïde – e per condividere quel che ci ha insegnato Haydn: le note non stanno lì per far bello, esse devono raccontare qualcosa …».
Ed il giovane ensemble si mostra gioiosamente all’altezza dell’impegno, con un’interpretazione agile e disinvolta, accentuata da un umorismo che non forza mai gli effetti ma preferisce la sorpresa che segue le delicate attese, le appena percettibili sospensioni del racconto.
Su YouTube un video della registrazione, con intervista (in francese, con sottotitoli in inglese).
W.A.Mozart
Kurfürstin-Sonaten KV 301-306 – David Grimal: violino, Mathieu Dupouy: fortepiano – Label-Hérisson (77’56)
Mi sono sempre domandato perché le Sonate per violino e pianoforte di Mozart non abbiano mai incontrato il successo che meritano. Raramente presenti in concerto ed in disco, queste composizioni – scritte durante il viaggio intrapreso dal Giovane Wolfgang-Amadeus, accompagnato dalla madre, da Strasburgo a Parigi – ben rappresentano il trionfo del genio sulla necessità e dell’indipendenza sulle esigenze di un padre avido e severo. Scritte tra Mannheim e Parigi, riunite a fini commerciali in un’Opus 1 che stenta a trovare un editore o un incisore che la pubblichi a sue spese, le Sonate tracciano sopratutto il ritratto di un giovane superdotato che brucia del bisogno di liberarsi finalmente, e non soltanto dai condizionamenti della famiglia ma anche dall’ambiente provinciale e meschino che lo mortifica in un ruolo mercenario, alla ricerca di un incarico, di una commissione, di lezioni ad allievi titolati ma spesso mediocri.
Più che di virtuosismo esibizionistico, questa musica ha quindi bisogno di una grande sensibilità e dell’intelligenza di questo momento così particolare, decisivo, nella vita e nella carriera di Mozart. È il caso del duo formato da David Grimal e Mathieu Dupouy, che delle Sonate ci propongono una lettura aerea e luminosa, gonfia degli entusiasmi e delle speranze del giovane Mozart. Giovano all’equilibrio della registrazione le coinvolgenti sonorità dello Stradivarius del 1710 di Grimal e, sopratutto, dello splendido fortepiano Gräbner, prestato dal Museo della musica di Parigi, uno strumento costruito nel 1791 e giunto sino a noi in un eccezionale stato di conservazione.
alla breve
Nikolai Lugansky
Schubert: Piano Sonata in do minore D.958, Impromptus D.935 – Nikolai Lugansky: pianoforte – ambroisie naïve (74’)
Sin dalle prime note, dai primi accordi piazzati sulla tastiera con energica decisione, il carattere di Nikolai Lugansky – che Gramophone ha definito «l’interprete più innovatore e più meteorico di tutti» – si afferma, ed al tempo stesso il suo rapporto con Schubert, compositore che per la prima volta egli ci propone in disco.
Egli ha scelto la Sonata in do minore D.958 – una delle ultime tre – mettendone in risalto la contraddittoria dialettica, tra scura e potente energia ed un ideale che ancora respira di luminosa umanità. Completa il cd la serie dei quattro Impromptus D.935, i più virtuosi tra quelli scritti da Schubert, in un’interpretazione nella quale l’infallibile tecnica dell’interprete non raffredda mai l’emozione all’improvviso svelarsi delle magiche apparizioni.
Liszt ou la tentation de l’universalité
Thomas Monnet: organo – Hortus (72’05)
Se Liszt pianista può spesso esasperare, per la sfida, ovunque implicita, al virtuosismo dell’interprete – una sfida che, ai nostri tempi di record pianistici che si moltiplicano allo stesso ritmo di quelli sportivi, rimanendo perennemente incrostati alla superficie dei dischi, mi sembra vana e superflua – il Liszt organista mi suona più verosimile, credibile nelle sue aspirazioni ad abolire le frontiere per espandere la sua musica in uno spazio intemporale, unificato. È il caso dei quattro densissimi, impegnati brani, qui splendidamente registrati da Thomas Monnet, per i quali Liszt ricorre alle tematiche di Johann Sebastian Bach, Allegri, Mozart e Meyerbeer. L’organo è il favoloso Cavaillé-Coll di Saint Maurice de Bécon recentemente restaurato (di Thomas Monnet vi ho già parlato in occasione della sua intensa, suggestiva, registrazione dell’integrale di Jean-Louis Florentz).