Ho sempre questa sensazione che i libri mi chiamino. Passeggiavo tra gli stand del Salone del libro di Torino, a fine maggio. Era domenica mattina presto, la quiete prima dell’ultimo assalto di lettori e visitatori. E a un certo punto, allo stand de L’orma Editore, come un flash vedo la copertina e il titolo: “Veniva da Mariupol”. Certo avevo notato tra le varie pubblicazioni una presenza nutrita e messa in bella vista di autori dell’est Europa, e avevo apprezzato l’impegno degli editori a darci qualche strumento e qualche indizio per capire meglio quello che sta succedendo, la tragedia che ci ha colto alla sprovvista, la guerra non dichiarata che si svolge poco più in là del nostro naso.
“Veniva da Mariupol”, quella semplice scritta su una copertina spoglia, era anche un passo oltre quello sforzo. Un romanzo che già nel titolo portava il nome di luogo sconosciuto e ignorato fino a poco prima e ora così presente e importante. Ho comprato il libro senza esitazioni e, nonostante ne avessi presi altri, altrettanto attraenti e interessanti e di valore, l’ho cominciato subito. Avevo guardato sulla cartina dov’era Mariupol, avevo provato a immaginarmi la città come a suo tempo avevo fatto con Odessa o Kiev, protagoniste di romanzi e letture piene di fascino.
Ma chi era che veniva da Mariupol? Era Evgenjia, la madre della protagonista e voce narrante del libro, la scrittrice tedesca Natascha Wodin. Aveva lasciato Mariupol durante la guerra, adescata dal regime di Hitler che, in cerca di lavoratori che sostituissero gli uomini al fronte, aveva promesso meraviglie agli slavi che fossero andati a lavorare in Germania. La rivoluzione bolscevica imperversava in tutto l’ex impero dello zar e persecuzioni, regolamenti di conti e violenze di ogni genere rendevano la vita impossibile. In molti quindi avevano deciso di lasciare il loro Paese, e Evgenija lascia Mariupol, in Ucraina. Salvo poi ritrovarsi, Evgenija e tutti, internati in campi di lavoro forzato e in condizioni non troppo dissimili da quelle dei campi di concentramento.
Finita la guerra, la maggior parte degli slavi deportati in Germania preferisce non ritornare a casa, dove sanno che troverebbero ad aspettarli altre persecuzioni, quelle del regime di terrore staliniano. Restano, nel campo profughi vicino a Norinberga, anche Evgenjia, il marito e la figlia, nata proprio alla fine del conflitto: restano nonostante la miseria, le discriminazioni e lo stato di perenne paura, nonostante gli venga fatto capire tutti i giorni che sono sgraditi, nonostante nessuno si fidi di loro. Cercano disperatamente un visto per emigrare in America, ma forse sono troppo disperati, forse non ci credono abbastanza, e non ci riescono. Piano piano, grazie agli aiuti degli americani e all’inizio della ricostruzione, la situazione migliora, vengono costruite delle case per i profughi, i bambini vanno a scuola, si potrebbe anche immaginare una normalità. Ma Evgenjia a questo punto non ce la fa più e si butta nel fiume che scorre vicino a casa. Come se avesse esaurito le sue capacità di sopravvivenza.
E in effetti quante sono, le nostre capacità di sopravvivenza?
Leggendo libri come questi, che sono testimonianze dirette e dunque indiscutibili, di quello che un essere umano può trovarsi a subire, si provano sensazioni diverse e contraddittorie. La scala della cattiveria umana, la potenza gelida dell’odio, si fa fatica a immaginarle. Così come le risorse che ognuno trova dentro se stesso per andare avanti, la scintilla della speranza che resta accesa nonostante tutto. La gratitudine per non essere capitati in quei tempi e in quei luoghi, la si sente più forte che mai. E ancora una volta un secolo di cui ascoltiamo ancora la musica e ammiriamo l’arte, un secolo che sembra aver segnato tanti progressi, vediamo nostro malgrado cha anche registrato, e ci restituisce con precisione, una crudeltà, un accanimento, un livello di orrore che speravamo potesse non esistere più.
Ogni nuovo libro che scandaglia, da una prospettiva o da un’altra (e ovviamente ce ne sono infinite) i regimi totalitari, quello hitleriano specialmente, ogni nuovo libro porta alla luce un nuovo orrore, una nuova aberrazione, una nuova follia. Quest’inverno per esempio avevo letto “Il libro di ricette di Alice”, di Karina Urbach, in cui l’autrice, una storica austriaca, indagando sulla sua famiglia durante l’Olocausto scopre la ”arianizzazione” dei libri. Vale a dire che tutti libri scritti da ebrei, soprattutto se di successo (e ce n’erano molti) venivano ristampati e rieditati come se fossero prodotti da scrittori ariani, che facevano ben volentieri da prestanome. Mi aveva colpito come l’ideologia della razza non lasciasse nulla di intentato.
Un’altra volta avevo letto un saggio in cui erano stati studiati gli spostamenti forzati di popolazioni nelle regioni tedesche e confinanti: a blocchi, sulla base di una presunta appartenenza etnica, ma in realtà solo ed esclusivamente per favorire gli ariani. E ora il lavoro forzato dei cittadini dell’est. Se si pensa che nello stesso periodo storico negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sono le donne a sostituire gli uomini in guerra, si capisce quanto la cultura sia dirimente. E quanto ogni ideologia che si basi sulla superiorità di qualcuno non può portare che distruzione e morte. Vi direi quindi che, indipendentemente dalla ragione che mi ha attirato a comprarlo, sono due le cose che mi ha lasciato, profondamente, questo romanzo: la prima è come ogni persecuzione, ogni discriminazione, ha per fondamento la nostra paura del diverso, sfruttata da un’ideologia che rafforza il timore che il diverso sia inferiore e pericoloso; la seconda è come la ricerca delle proprie origini sia essenziale per ogni essere umano. Essenziale per la sopravvivenza. Perché a un certo punto, senza il racconto della nostra storia, da dove e da chi veniamo, siamo monchi, siamo zoppi, siamo volatili. Tutto quello che Natascha ha e sa di sua madre sono una foto, un paio di documenti, i ricordi di quando era bambina. Nulla rispetto a quello che vorrebbe sapere.
Grazie a internet però riuscirà a ritrovare dei frammenti, delle immagini, persino dei parenti lontani con cui ricomporre la storia di famiglia. La Rete è veramente una rete, e nelle sue maglie alcune cose si fermano e si impigliano. Con molta pazienza, un pizzico di fortuna e l’aiuto di tutti gli altri che sono in cerca del proprio passato, Natascha riesce alla fine a immaginare una vita, per sua madre. Una vita tragica, atroce, inaccettabile anche. Ma una vita e non un vuoto. Sapere è sempre meglio che non sapere.
E tutto sommato, questo è quello che ci possono dare i libri: qualche traccia, qualche immagine, qualche notizia intorno alla quale provare a costruire una narrazione, un ragionamento, una riflessione. Ci vuole coraggio a scrivere libri come questo, e ci vuole un po’ di coraggio anche a leggerli. Perché la tentazione del “occhio non vede cuore non duole”, della distrazione, è sempre presente, sempre forte. Io però sono contenta di essermi data quel coraggio. E sono sicura che ve lo potrete dare anche voi. Perché è solo con la conoscenza che ci possiamo salvare.
Buona lettura.
“Veniva da Mariupol”, Natascha Wodin