C’è un solo motivo, secondo me, per cui un libro si può a buon diritto abbandonare. E cioè che non sia credibile, che quando lo leggiamo abbiamo una voce dentro la testa che ci dice ma figurati, ma chi se la beve, ma vallo a raccontare a qualcun altro… ecco se un libro ci fa quell’effetto, okay, lo possiamo piantare lì.
Ma se un libro ci inquieta, ci scuote, allora dobbiamo proprio leggerlo. Contiene sicuramente qualcosa di importante per noi.
La realtà non è sempre bella, noi che abbiamo passato i fifty e anche i sixty lo sappiamo bene. Ciononostante, è meglio sapere, è meglio conoscere.
È solo la conoscenza che ci aiuta a superare le difficoltà, a trovare la strada e ad attingere alle risorse dentro di noi.
Questo lungo preambolo per introdurvi un libro importante, “E i figli dopo di loro” di Nicolas Mathieu. Definito un romanzo di formazione, l’anno scorso ha vinto il premio Goncourt, riconoscimento super prestigioso e sicuramente meritato.
Quindi l’ho scelto perché ne avevo sentito molto parlare. Avevo amato altri libri francesi che avevano vinto il Goncourt, ad esempio “Ci rivediamo lassù” di Pierre Lemaitre, e quindi mi sono
detta ok, questo è il libro di aprile.
Poi però quando ho cominciato a leggerlo mi sono trovata spiazzata.
Sono stata letteralmente catapultata in un’estate torrida, in Francia, al nord, ai confini con il Lussemburgo, insieme a dei ragazzini che, finita la scuola, non hanno nulla da fare e ciondolano annoiati. Anthony, Hacine e Stephanie sono molto diversi per provenienza sociale oltre che per
carattere, ma sono accomunati dai sentimenti esacerbati e estremizzati dell’adolescenza, amore, attrazione sessuale, rancore, violenza, passione, oltre che dall’appartenenza geografica. Si drogano, bevono, rubacchiano, si picchiano. Si esprimono con un linguaggio pieno di parolacce,
crudo, diretto.
Ma appunto, questo è il momento in cui bisogna resistere e andare avanti.
E infatti, superate quelle pagine in cui la droga, la violenza, la scemenza, sembrano insopportabili, il romanzo comincia ad apparirvi un’altra cosa: diventa il racconto di una regione e di una società.
Il racconto, alla fin fine, del nostro mondo, con le fabbriche abbandonate in favore del capitalismo finanziario, i disoccupati che non sanno e non possono trovare una ricollocazione, i giovani privi di riferimenti, la natura maltrattata, che qua e là riprende i suoi spazi, ma soffre ancora delle offese che le si sono fatte senza neppure accorgersene. Un mondo post industriale, che non funziona, che non capisce se stesso, che forse si reinventerà, ma che intanto paga per l’avidità e la sconsideratezza della classe al potere. C’è una profondità di analisi, una lucidità di visione, in questo romanzo, che mi ha lasciata veramente impressionata e che mi è piaciuta davvero tanto. Forse perché credo che più che mai in questo momento abbiamo bisogno di capire e considerare il contesto, l’ambiente, ciò che ci sta intorno. Soltanto capendo il contesto si capiscono anche le storie individuali.
Si capisce quella frase di papa Francesco di cui hanno parlato tutti, a proposito e a sproposito, “nessuno si salva da solo”. L’individualismo sfrenato, estremo, onnipotente, mitizzato da tutte le società occidentali, si sta rivelando nella sua pochezza e nella sua sventatezza.
Che ci piaccia o no siamo parte di un tutto. Lo capiscono anche i protagonisti di “E i figli dopo di loro”. Che non è che brillino per intelligenza e cultura.
Anthony, che ha quattordici anni all’inizio del libro, soffre sia un difetto alla palpebra che gli dà un’aria torva, sia della crisi dei genitori, il padre disoccupato e alcolista, la madre che era bella e rimpiange di essersi persa in un buco di provincia con un uomo con cui non sta bene e un figlio che non riconosce più e forse non le piace più.
Hacine, immigrato di seconda generazione, patisce e sconta in qualche modo la non riuscita integrazione del padre (e di tutti gli altri padri del quartiere) arrivato dal Marocco in cerca di fortuna e che alla fine ha sì una casa e una pensione… ma era quello che voleva? E soprattutto ne è valsa la pena?
Stephanie è bella e viziata, i suoi genitori sono ricchi e lei è capricciosa, complicata, confusa.
Però questi protagonisti, quando si siedono sotto una gigantesca statua da cui si domina la valle, quando guardano il paesaggio intorno che conoscono per filo e per segno, pur non avendo le parole per dirlo lo capiscono perfettamente, di essere parte di un tutto. Di essere legati l’uno all’altro. Di essere il prodotto di un contesto su cui non hanno alcun controllo. Di dover fare i conti con un “intorno” che non hanno scelto ma che c’è.
E anche se non ci identifichiamo di certo, in questi personaggi, che anzi a tratti ci suscitano ripugnanza e ci fanno venire voglia di scappare, pure in tutti, sorprendentemente, quando meno ce lo aspettiamo, si rivela un’improvvisa dolcezza, un tratto di fragilità, uno sprazzo di bontà. Trovare l’umanità quando e dove è costretta a nascondersi è la grande ricchezza di uno scrittore.
E in questo libro la trovate, l’umanità nascosta, la scintilla non ancora spenta.
È quindi un libro che ci fa riflettere, ci fa pensare. Che in questo tempo sospeso ci serve. Ora più che mai dobbiamo cercare di capire, studiare, conoscere. Per ripartire con consapevolezza, cercando anche noi nel nostro piccolo di portare la barca su cui stiamo tutti insieme nella direzione di un maggior rispetto, tanto per cominciare, dell’ambiente intorno a noi, del nostro prossimo e di noi stessi.
Buona lettura!