I racconti della raccolta “L’uomo che non voleva piangere” di Stig Dagerman, sono accomunati, a partire da quello che le dà il titolo, da un surrealismo inquietante e da una scrittura pulita e lineare
Come sanno raccontare la cupezza e l’inquietudine, gli scrittori nordici. Lo fanno con un fondo di ironia, come se non fossero neppure loro sicuri di crederci. Ma lo fanno con serietà, e con talento e con fantasia. I racconti di questa raccolta, “L’uomo che non voleva piangere” di Stig Dagerman, sono accomunati, a partire da quello che le dà il titolo, da un surrealismo inquietante e da una scrittura pulita e lineare. Come se ci fosse bisogno di mettere insieme questi due elementi per restituire l’assurdità delle esistenze, o almeno di parte di esse. Capita del resto almeno una volta al giorno di raccontare a chi è vicino qualcosa che è successo, cominciando con “non sai cosa mi è capitato oggi”. Spesso si fa riferimento a comportamenti dei colleghi d’ufficio, o a scene a cui si è assistito per strada, al bar, sui mezzi pubblici. Scene che si osservano scuotendo la testa, e che poi vengono raccontate come assurde e inimmaginabili, inaspettate. Dagerman inquadra queste scene in situazioni vagamente realistiche, le estremizza, le porta alle loro estreme conseguenze, al parossismo. Dipinge un mondo incomprensibile ma che si spaccia per normale.
Che sia qualcuno costretto a piangere di fronte a un evento, oppure un marinaio che galleggia nell’acqua sperando di non finire fucilato dal capitano della nave; che sia il ragazzino che vende i giornali durante le vacanze estive o l’uomo che, in prima persona, racconta la morte dei genitori e le sue ubriacature; che sia la moglie che si chiude in camera sperando di essere tirata fuori, anche con la forza; tutti i protagonisti di Dagerman sono disperatamente soli. “Quanto devo rendermi sola perché qualcuno si accorga finalmente della mia solitudine e mi salvi? E butti giù la porta?”
Forse sta in questa parole la principale chiave di lettura del libro. Questa solitudine che in parte abbiamo cercato e che serve per costruirsi come individui separati dagli altri, ma che poi spesso diventa una prigione, una condanna. I racconti di Dagerman non hanno bisogno di social media e tecnologia per dare alla solitudine la sua consistenza appiccicosa e sporca, collocati nel secolo scorso e il dramma dell’uomo che non riesce a comunicare con i suoi simili, che il lavoro o l’assenza di lavoro rendono schiavo, sono tutti davanti agli occhi. Insieme al troppo bere e all’ubriachezza, insieme all’impossibilità di comprendersi tra uomini e donne. E insieme a una natura già rovinata, paesaggi che sarebbero meravigliosi se non fossero pieni di spazzatura; come se gli umani non solo non fossero capaci di stare al mondo, ma non fossero neanche capaci di pulire dove si è sporcato, di non lasciare tracce o di lasciare delle tracce di bellezza.
È un’umanità triste e con poca speranza, quella che racconta Dagerman. Ma forse proprio per questo, proprio perché la speranza va sempre cercata anche quando sembra impossibile trovarla, proprio per questo leggere questi racconti è importante e anche utile. Ogni passo in cui non ci si riconosce, ogni momento in cui si pensa di poter essere diversi, significano che sì, la speranza esiste. Difficile da trovare. Ma non bisogna mai smettere di cercarla.


Stig Dagerman, “L’uomo che non voleva piangere”


Da un autore di culto della letteratura svedese del Novecento, sedici racconti tra realismo sociale e visionarietà. Maestro del racconto realistico ma anche visionario frequentatore del fantastico, erede della grande tradizione della narrativa sociale svedese e insieme originale ammiratore di Kafka: Stig Dagerman fu tutto questo. Sperimentatore e innovatore, nei suoi romanzi alterna l’adesione alla realtà a una poetica dell’assurdo dove gli universi narrativi assumono forti connotazioni simboliche. E questa versatilità emerge anche nei suoi numerosi racconti, che furono in parte pubblicati in vita e in parte raccolti solo dopo la prematura morte dello scrittore. Racconti tra loro assai diversi, e tuttavia in ciascuno ritornano i temi che caratterizzano nel complesso la sua scrittura: il terrore senza nome e senza apparente ragione che attanaglia il protagonista dei Vagoni rossi, la topografia onirica e gli ossessivi sensi di colpa nell’Uomo di Milesia, ma anche il flusso di coscienza in cui – in Dov’è il mio maglione islandese? – il narratore costruisce con un linguaggio duro, cattivo e disperato una versione menzognera e illusoria della propria esistenza per poi, reso confuso e inerme dall’ubriachezza, smontarla e rivelare tutta la propria infelicità, il proprio bisogno d’amore. Dagerman come sperimentatore, dunque, ma il suo sperimentare non è mai fine a se stesso: è piuttosto l’incessante ricerca di mezzi espressivi che permettano di presentare in modo vivo, quasi violento, le grandi questioni dell’esperienza umana. Anzitutto il senso della sofferenza e poi la costante ricerca di un amore che è allo stesso tempo indispensabile e irraggiungibile.