Con “L’assassinio del Commendatore”,Murakami ci ricorda che il mondo è molto più misterioso e incantato di quello che crediamo. E che proprio per questo è un posto meraviglioso in cui vivere.
Una borsa con qualche vestito e le matite per disegnare. Quando la moglie gli dice che lo lascia, il protagonista di questa storia non prende altro: carica tutto in macchina e se ne va. Ha trentasei anni, un lavoro come ritrattista su commissione e la sensazione di essere un fallito. Così inizia a vagabondare nell’Hokkaidō, finché un vecchio amico gli offre una sistemazione: la casa di suo padre, il grande pittore giapponese Amada Tomohiko, rimasta vuota da quando questi è entrato in ospizio in preda alla demenza senile. Il nostro protagonista accetta e si trasferisce lì, ma un inquietante quadro nascosto nel sottotetto e una misteriosa campanella che inizia a suonare tra gli alberi nel cuore della notte gli fanno capire che la sua vita, anzi la sua realtà, sono cambiate per sempre.
Chi conosce già Murakami può essere sfiorato dal dubbio, e chi non lo conosce potrebbe cadere in inganno: ma “L’assassinio del Commendatore” non è un giallo, non è un thriller, non è un mystery. È un altro splendido romanzo di Haruki Murakami.
Io penso di aver letto, nel corso degli anni, quasi tutti i suoi libri. Come per ogni scrittore, non tutti i libri mi sono piaciuti allo stesso modo, ma è sicuramente uno degli autori contemporanei che amo di più.
Ho comprato questo romanzo nell’edizione integrale, che non è la prima, ma ha delle bellissime illustrazioni ed è in un solo volume. E vi posso dire che per me è una delle cose più belle che abbia letto, di Murakami, ma anche di altri autori. Potrebbe entrare nella classifica dei 10 libri migliori del 2020 per me, se la facessi (ma non la faccio).
Il mondo giapponese mi affascina moltissimo, a distanza, e soprattutto da un punto di vista estetico. Ma c’è qualcosa in Murakami che va oltre la fascinazione per il Giappone e la nostra idea del Giappone. Qualcosa che non so dire se sia solo suo o anche della cultura giapponese, ma ai fini della lettura poco importa.
Murakami accetta la presenza del mistero nella nostra vita. Di qualcosa che è presente senza che lo vediamo, che ci parla senza le parole. Di qualcosa che sperimentiamo, che siamo certi esista, ma non possiamo raccontare, se non a qualcuno che ha fatto un’esperienza simile, e di cui intuiamo, sentiamo la somiglianza. In realtà, a ben guardare, il mistero circonda la nostra vita, sta dentro il nostro animo.
Che la vita non abbia solo la dimensione tangibile, esteriore, evidente, ormai ce lo dicono e dimostrano anche gli scienziati. Noi tuttavia, umani più o meno comuni, circoscriviamo il mistero alle domande senza risposta, o a quello che non riusciamo a capire. E nei libri il mistero viene confinato a un genere, per di più considerato minore, di semplice consumo e intrattenimento. Invece quello che Murakami ci racconta riguarda altri mondi o meglio altre dimensioni, i cui confini non conosciamo, ma ci capita, a volte improvvisamente, inconsapevolmente, di attraversare. Dimensioni in cui succede di inciampare, di imbattersi senza preavviso.
È un mistero a cui hanno accesso solo alcuni, non perché privilegiati, ma perché sensibili e soprattutto pazienti. Pazienza è una parola chiave e mai come di questi tempi è parola utile quanto abusata.
Il protagonista del romanzo, che rimane senza nome perché è il narratore stesso, è un pittore di ritratti che all’improvviso viene abbandonato dalla moglie. Dopo aver vagato per alcune province del Giappone senza sosta e senza meta, si trasferisce nella casa del padre di un suo amico, un grandissimo e famoso pittore molto anziano e ora malato, probabilmente di demenza senile. La casa si trova su una collina, guarda il mare e guarda la montagna, è impregnata dello spirito del suo proprietario, e il narratore la abita con riguardo ma anche con pienezza.
Il narratore non teme l’attesa, non teme i vuoti, o meglio, pur temendoli, sa che vanno vissuti tanto quanto i pieni. Il narratore è paziente. Se non capisce, aspetta di capire.
Per caso e per curiosità trova in soffitta un quadro nascosto, intitolato “L’assassinio del Commendatore”. Un quadro bellissimo che guarda per ore, tantissime, innumerevoli ore.
Sono la pazienza, la capacità di aspettare, di restare con le domande senza risposta per un tempo indefinito, le caratteristiche che permettono al narratore di entrare e vivere dimensioni diverse. Il suo compito, alla fine, è quello di portarlo verso una conoscenza di se stesso che non si poteva raggiungere altrimenti.
Come dire, non si può viaggiare solo in autostrada. Non si può arrivare alle vera essenza di se stessi percorrendo la tangenziale e con l’uscita segnalata in anticipo dai cartelli. Il viaggio verso se stessi è accidentato, imprevedibile, a volte pericoloso, spesso doloroso. Ce lo ha insegnato Dante, peraltro, qualche secolo fa, e da allora per quanto riguarda la nostra anima non è davvero cambiato nulla.
Dunque Murakami ci racconta e ci mostra non il percorso che dobbiamo fare, ma le semplice esistenza di un percorso, che poi ognuno deve trovare da sé. E la cui porta si apre non quando ci sentiamo pronti, attrezzati e corredati di tutti gli strumenti possibili. Si apre quando ce n’è davvero bisogno, e dobbiamo essere ciechi e sordi per non sentirla (ma spesso, ahimè troppo spesso, lo siamo proprio).
Ecco questo è quello che ho imparato da questo romanzo, e non è poco. E poi la scrittura liscia, levigata come una pietra lavorata dal mare; la nitidezza delle descrizioni del quotidiano, il cibo, il sonno, gli abiti, le passeggiate; la pittura svelata nel suo procedere.
C’è molta sapienza, regalata con generosità.
Per conoscere i libri dell’autore
Haruki Murakami (Kyoto, 12 gennaio 1949) è uno scrittore, traduttore e accademico giapponese. È stato tradotto in circa cinquanta lingue e i suoi best seller hanno venduto milioni di copie. I suoi lavori di narrativa si sono guadagnati l’acclamazione della critica e numerosi premi, sia in Giappone che a livello internazionale, come il premio World Fantasy (2006), il Frank O’Connor International Short Story Award (2006), il Premio Franz Kafka (2006) e il Jerusalem Prize (2009).
Le opere più celebri comprendono “Nel segno della pecora” (1982), “Norwegian Wood” (1987), “L’uccello che girava le viti del mondo” (1994-1995), “Kafka sulla spiaggia” (2002) e “1Q84” (2009–2010). Ha inoltre tradotto un cospicuo numero di lavori dall’inglese al giapponese, spaziando da Raymond Carver a J. D. Salinger.