“Il decoro”: David Leavitt racconta la stupidità, e l’America

David Leavitt per me è una vecchia conoscenza, uno scrittore famigliare, uno di quelli di cui ho letto più o meno tutto. Ricordo molto bene quando è uscito “Ballo di famiglia”, il coro di plauso per l’epigono di Raymond Carver. Leavitt era il giovane minimalista, gay, una voce promettente, un qualcosa di speciale. Era il 1984, forse c’erano meno libri e meno fenomeni letterari di adesso. Ballo di famiglia non era perfetto ma era bello, era nuovo, e che gioia trovare un bravo scrittore di cui ci si pregusta tanti tantissimi libri. Poi Leavitt ha fatto il suo percorso, ha scritto tanto, romanzi belli e meno belli come tutti. E curiosando in rete, poco prima delle vacanze, ho scoperto che stava per uscire “Il decoro“, il nuovo romanzo. Che usciva addirittura prima in Italia che negli Stati Uniti. Cosa che in effetti ogni tanto succede, e Leavitt ha certamente un legame forte, con l’Italia.

Non a caso la protagonista di “Il decoro” decide di comprare una casa a Venezia. È una signora ricca, Eva, spaventata dall’elezione di Trump che vede simile a quella di Hitler, e la casa a Venezia è la sua via di fuga, il rifugio in caso venissero tempi peggiori. La farà sistemare e soprattutto arredare dal suo designer di fiducia, con il quale sa di intendersi alla perfezione. Convincerà il marito, Bruce, che non pensa sia un buon investimento ma che le ha sempre comprato tutto quello che voleva.

C’è un’America che è così (c’è un mondo che è così), dove si comprano le case come noi compriamo il pane e la frutta. Dove i soldi si fanno con i soldi, quasi come l’albero di Pinocchio. Noi europei, che gli Stati Uniti ci sembra di conoscerli ma poi ci sorprendono sempre,  pensiamo che questa America sia trumpiana per definizione. Che sia repubblicana, conservatrice, contro le tasse, a favore delle armi in mano a tutti, delle energie fossili, del guadagno a tutti i costi.  Ebbene Eva, e tutto il suo contorno di amici e conoscenti, sono così antiTrump che si chiedono addirittura se c’è un modo per farlo fuori. Nella visione personalistica della politica, un uomo solo al comando, un uomo solo che decide il destino di una nazione, basta eliminare quell’uomo e tutto si è risolto. E soprattutto, Eva non ha un motivo per essere spaventata da Trump. Non si preoccupa del programma politico, delle scelte ideologiche; non accenna neppure a quel disprezzo verso le donne che Trump vanta pure in tempi di #metoo. Non lo cerca neppure, un motivo. E neppure si chiede se si possa fare qualcosa, a parte chiedere a Siri se c’è un modo per assassinarlo.

 

 

Eva è uno dei personaggi più stupidi che mi sia mai capitato di incontrare in un romanzo. E Leavitt, narratore onnisciente e scrittore deliberatamente neutrale, non ce lo dice mai. Ce lo fa capire, pagina dopo pagina, e ce lo fa constatare dopo, a libro chiuso, quando ripensiamo alle affermazioni di Eva, ai tre cani che le distruggono il divano perché sono stressati dopo aver fatto una passeggiata con il marito e il vicino di casa trumpiano (che ha osato anche festeggiare l’elezione, e l’ha costretta a partire per Venezia…), al fatto che lei non si provi nemmeno ad analizzare la politica di Trump. Per non parlare del fare qualcosa: a Eva proprio non la sfiora nemmeno l’idea che si possa fare opposizione, lottare per affermare una differenza. Del resto l’unica preoccupazione di Eva è il decoro: quello estetico, della sua casa di New York e di quella del Connecticut; e quello morale, non si dicono parolacce, non si parla di sesso. Un decoro al cui confronto persino “le buone cose di pessimo gusto” di Guido Gozzano sembrano dense di significato e di rilevanza sociale.

C’è una vuotezza, in Eva ma anche nei suoi amici, tutte persone laureate, una giornalista, un editor, una scrittrice, che fanno paura, una volta che abbiamo chiuso il libro e ci siamo resi conto di quale mondo Leavitt ci ha fatto vedere. E ce lo ha fatto vedere senza farci accorgere che ce lo stava facendo vedere. Ci sono scrittori che accompagnano il lettore, scrittori che avvolgono e abbracciano il lettore, altri che ammiccano ogni tanto dalle pagine, alcuni che gli parlano esplicitamente. Leavitt se ne sta tranquillo in un’altra stanza a farsi i fatti suoi, e posso solo immaginare che sorrida quando, magari come me a lettura ben conclusa, si accorge che il lettore ha capito e apprezzato davvero quello che ha letto. Quanto alla rappresentazione della stupidità, con la sua casualità (perché oggi Eva detesta Trump, ma con le stesse motivazioni potrebbe avere paura di Joe Biden domani, o averne avuta di Barak Obama ieri) e la sua dipendenza dall’onda del momento, dall’emozione di un attimo, dall’estetica, è molto realistica. Molto, molto realistica. E non così esclusivamente americana. 

E ha secondo me un grande insegnamento: non è la politica, l’ideologia, la scelta di un partito o di una casa o di un colore o di un decoro, che definisce chi è una persona. È piuttosto il contrario: ci sono persone di grande valore in ogni compagine politica, in ogni professione e con qualsivoglia gusto estetico. Che non significa che le idee e le opinioni non contino e non facciano la differenza. Ma che più di tutto sono intelligenza o stupidità (non facili da definire, lo so) che fanno la differenza. Dopo di che l’America, come il suo grande cantore Walt Whitman, per fortuna “contiene moltitudini”. Si tratta solo di trovare quella giusta. Buona lettura!

“Il decoro”, di David Leavitt
SEM editore
Prezzo: 17,00€ – Pagine:  352
Un romanzo che parla del bisogno di sicurezza e dell’istinto di scoperta, del rapporto tra altruismo e autoconservazione e della natura effimera di un certo tipo di ricercatezza. Autore tra i più stimati della scena contemporanea, in questo suo nuovo e atteso lavoro David Leavitt rinnova i fasti della letteratura americana più elegante e raffinata. “Il decoro” riporta all’attenzione della critica e dei lettori un vero, grande scrittore.
Emma Faustini:
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