Le parole per il protagonista diventano il modo per fare pace con il mondo circostante e per raccontare il caos in cui stenta a trovare il suo posto. Parole che risvegliano emozioni e sentimenti, per un Paese, il Kenya, e per un’esistenza completamente stravolti
È un libro bellissimo, questo. Comincia con un’infanzia, in cui alla magia che è propria di quel periodo, nel ricordo, si aggiunge il fascino di una terra bellissima e poi perduta, il Kenya.
A narrare la sua vita ma soprattutto i posti, le circostanze e le situazioni, è Binya, un bambino timido e pensieroso affascinato dalle parole tanto quanto dall’energia e dalla disinvoltura del fratello più grande Jimmy e della sorella più piccola Ciru. Binya fa parte di una famiglia della media borghesia keniota, in quel momento storico in cui si crede che il Kenya possa sfuggire al destino di caos dei paesi africani. La madre di Binya viene dall’Uganda, e ha ancora tutta la famiglia laggiù quando scoppiano dei disordini che portano in breve alla disgregazione delle istituzioni sociali e del patto di convivenza tra tribù ed etnie differenti. Alla fine verranno chiuse le frontiere e ci vorranno anni prima che Binya possa andare a trovare nonni e cugini. E quella dell’Uganda non è una situazione insolita, è piuttosto la norma nei Paesi dell’Africa dopo la decolonizzazione.
Ma il Kenya è un’isola di pace. Purtroppo ancora per poco. Man mano che Binya cresce, entra nell’adolescenza e si guarda intorno verso un mondo che è più grande di quello della famiglia e della scuola, cresce anche la complessità del mondo, e soprattutto crescono l’incertezza, l’imprevedibilità, l’incomprensibilità. In breve anche il Kenya diventerà un paese di lotte tribali, divisioni fratricide, potere gestito dai militari. I neri come Binya e la sua famiglia, europeizzati, colti, che hanno studiato e vogliono studiare, che lavorano insieme ai bianchi, non potranno più considerarsi il futuro del Paese. Scompariranno i sogni di uno sviluppo economico che potrebbe assicurare benessere per tutti.
La morte di Kenyatta, il padre della patria, l’artefice della fragile unione che aveva segnato il progresso del Paese, rappresenta la fine del sogno keniota, ed è un punto di non ritorno anche per Binya e i suoi fratelli e sorelle. Le scuole superiori e i college a cui erano sicuri di accedere per i loro brillanti risultati non li accettano più. Le lingue che parlano non sono più quelle utili e importanti. Binya si iscrive all’università in Sudafrica, ma attraversa una lunga crisi di identità in cui rischia di perdersi davvero. Saranno le parole e la scrittura a salvarlo. Quelle parole con cui da bambino giocava nella sua testa, ed era sempre distratto e sempre indietro rispetto ai suoi fratelli, perché per lui le parole avevano non solo un suono ma anche un corpo, una fisicità e una presenza costante. Le parole diventeranno poi il modo per fare pace con il mondo circostante e per raccontare il caos in cui stenta a trovare il suo posto. Diventeranno anche un modo per ripercorrere l’infanzia e per dare voce e vita a un tempo che, anche se oggi sembra impossibile, è esistito davvero ed è stato reale, tangibile, condiviso. Forse il sapere, e il far sapere, che il Kenya è stato un tempo un luogo di convivenza pacifica, di progetti a lungo termine, di prospettive per il futuro, forse potrebbe aiutare a cercare di immaginare un tempo nuovo che attinga al buono del passato e che affronti il futuro in modo diverso.
Ma perché ci hai detto che questo libro era bellissimo? Che cos’è che lo rende tale ai miei occhi, vi starete chiedendo. Penso che sia la scrittura, la voce del protagonista, la narrazione che sin dalle prime pagine ci avvolge e ci trasporta in un luogo mai visto prima e mai neppure immaginato ma nitido e presente come se fossimo lì. Parole inventate e sconosciute, parole che vengono da lingue diverse e vengono mescolate. Parole che aprono un mondo reale e insieme il mondo immaginario di Binya. Parole che risvegliano emozioni e sentimenti. Che ci fanno sentire esattamente come il protagonista, che legge in continuazione: perché leggere è entrare nella meraviglia del mondo, è immaginare qualcosa che, volendo, potrà diventare reale. Leggere è un potere immenso.
“Un giorno scriverò di questo posto” di Binyavanga Wainaina
Wainaina ha impiegato sette anni per raccontarne poco più di trenta della sua vita in questo memoir di formazione che ha l’impatto viscerale e apologetico di una confessione collettiva, quella del continente africano che si confronta con il mondo. La sua non è un’infanzia di stenti, la sua non è l’Africa ingorda degli affamati e delle multinazionali ma un’Africa che vuole trarre forza dalla diversità. Il giovane Binyavanga affronta i ricordi e li distilla nella sua visione emotiva della Storia. Il punto di partenza è un fatto che cambierà per sempre il suo paese. Nel 1978 muore Kenyatta, «il padre della patria», e gli succede Daniel arap Moi – un kalenjin al posto di un kikuyu. Mentre il Kenya appare al mondo come «un’isola di pace», impazzano la rivalità tra le tribù e il razzismo. Binyavanga, a dispetto degli ottimi risultati scolastici, non può studiare nella scuola che ha scelto, e questa è solo la prima di una serie di rinunce. Finite le secondarie, decide di emigrare in Sudafrica per studiare Finanza ma la nostalgia di casa e un senso di inadeguatezza avranno il sopravvento. Sono i libri a salvarlo: Binyavanga legge sempre, ovunque; si convince che il linguaggio è l’unico modo per dare una struttura al mondo. Ragionare sulle parole lo aiuta a costruirsi una coscienza politica. E così, a un certo punto, è tempo di agire: «Ho letto romanzi e osservato le persone. Ho scritto quello che vedevo nella testa, ho dato forma alla realtà mettendola in un libro», perché la vita non è solo capire chi sei ma anche chi dovresti essere.