Un tema difficile e attuale. Quasi una provocazione. Ma Marco Sarno, medico psichiatra e psicoanalista milanese, lo affronta con tranquilla consapevolezza.
“E’ evidente che la Psicoanalisi di fronte alla questione di una, seppur parziale, interpretazione della questione criminale nel nostro Paese, non possa che apparire come il vaso di coccio fra vasi di ferro. Sono altre le scienze umane che hanno attrezzature molto più adatte al compito: la storia in primis, la sociologia, l’economia, l’antropologia e naturalmente la criminologia. D’altra parte la psicoanalisi si è occupata spesso di questioni che vanno oltre lo stretto ambito della stanza d’analisi. Così, se l’imponente massa di dati e di riflessioni prodotte da un’immensa bibliografia sull’argomento venisse ascoltata come una sorta di narrazione e di sogno, o di incubo, si potrebbe creare lo spazio per una lettura che vada nella direzione dello svelamento, dell’andare oltre l’apparenza immediatamente visibile. Lo hanno già fatto, con livelli di qualità letteraria diversa, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Pasolini, De Cataldo e Saviano, Lucarelli e Camilleri, Carofiglio”.
Per analizzare illegalità, corruzione e criminalità meglio fare, quindi, una premessa storica…
“Ci sono momenti, nella storia del nostro Paese, molto suggestivi per l’ascolto analitico: uno di questi è rappresentato senza dubbio dalla figura di Francesco d’Assisi che, nel tredicesimo secolo, pone questioni rilevanti sotto l’aspetto etico e del ‘costume degli Italiani’.
La sua predicazione si fondava su alcuni principi di grande interesse: la critica al potere temporale e alla corruzione della Chiesa, il pacifismo e il dialogo con l’Islam (mentre erano in corso le Crociate), la sobrietà, diremmo modernamente, del modello di sviluppo, l’attenzione all’ambiente naturale come fratello e non preda dell’uomo, l’importanza della lingua materna, semplice e basica, concretamente parlata dalla gente, quindi trasparente e comprensibile a tutti, con il ‘Cantico delle creature’, che precede di ottanta anni il dantesco ‘De vulgari eloquentia’.
Il suo grande intento riformatore è esaltato da Dante che ne fa il Santo più importante del Paradiso, l’unico che possa liberare il Paese da “… quei lupi rapaci…” che ne fanno “… cloaca del sangue e della puzza…”. Sappiamo come la Chiesa disattivò il messaggio politico, etico e innovatore di Francesco, beatificandolo e letteralmente crocifiggendolo con l’invenzione geniale delle stimmate e facendo della spettacolare basilica di Assisi la sua tomba e degli affreschi commissionati a Giotto la sua agiografia, stravolgendo il messaggio del santo in un contesto che nulla ha a che fare con la povertà francescana. Francesco, infatti, poneva tutta la sua attenzione non sulla costruzione di nuove chiese, ma sul ripristino di quelle già esistenti, piccole e sparse nel territorio. Il conflitto fra l’interpretazione di Dante e quella di Giotto, che divergono radicalmente, rappresenta l’eterno contrapporsi nel nostro Paese fra i tentativi d’innovazione e gli splendori della restaurazione”.
“Un altro momento storico significativo per questo nostro discorso è la Controriforma e l’Inquisizione romana. Qui occorre sottolineare la censura operata nei confronti della parola: mentre il mondo riformato si fonda sulla traduzione in tedesco del Vecchio e Nuovo Testamento, in Italia simili iniziative diventano reato e meritano pene severe, finendo nell’Index Librorum Proibitorum. I fedeli sono più sudditi che cittadini e sono spinti in un’area piena di misericordia, ma povera di diritti, dove si perseguita l’eretico, e si perdona il peccatore: il miglior terreno perché fioriscano i don Rodrigo e i relativi Azzeccagarbugli. I primi assicurano ‘protezione’, corrompendo la funzione del codice paterno, i secondi esibiscono le infinite grida in ‘latinorum’, formalmente garantiste, ma che creano quella burocrazia perversa che finisce per tutelare solo chi ha il potere: e il diritto diventa favore”.
Oltre alla storia, anche la sociologia fornisce utili chiavi di lettura su questo tema?
“Anche i contributi della sociologia possono essere letti secondo un punto di vista psicoanalitico, con Max Weber, il grande maestro della sociologia del Novecento, che con la sua opera “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” sviluppa una teoria profondamente psicodinamica, che mette in stretta relazione un fenomeno non razionale e culturale, come la religione protestante, con una struttura economica, quale il capitalismo della rivoluzione industriale.
Per Weber la centralità della Riforma luterana sta nella radicale messa in discussione del primato dell’autorità del pontefice come vicario di Dio in terra, il che rilancia la libertà del singolo. Il crollo di una serie di gerarchie e dei relativi meccanismi di burocrazia ha due importanti conseguenze: da un lato limita drasticamente le dinamiche corruttive e dall’altro porta con sé lo scacco all’idea che un fine ultimo, sia pur l’esistenza di Dio, giustifichi compromessi e mediazioni di qualunque tipo. Da questa profonda crisi, si aprirono spazi di autonomia personale che fondarono la rivoluzione borghese nella quale, pur tra mille contraddizioni, ebbe inizio il processo che portò dalla dimensione della colpa a quella della responsabilità. Così, ciò che fai è nel primo caso, perdonabile e assolvibile, nel secondo solo giudicabile”.
“Il secondo riferimento sociologico, anch’esso capace di portare a qualche utile considerazione, si colloca nei primi anni Cinquanta del Novecento, in un piccolo paesino della Lucania, scenario di una ricerca antropologica cheresta tuttora un classico di questi studi.
Edward Banfield, americano, e sua moglie, Laura Fasano, italiana, analizzarono comportamenti e ideologie di poche centinaia di abitanti di Chiaromonte, piccolo Comune contadino molto povero e arretrato. La caratteristica che governava la vita di queste persone era rappresentata da un’incapacità di agire collettivamente fra più nuclei familiari, in vista di uno scopo comune che “andasse oltre l’interesse materiale immediato della famiglia nucleare”.
Quello che fu battezzato con la formula fortunata di ‘familismo amorale’, descriveva una specifica mentalità di gruppo, di diffidenza e sfiducia per l’altro da sé, sostenuta certo dalla grande povertà e da condizioni di vita precarie, che, però, possono spiegare, ma non interamente, questa incapacità di cooperare per un utile comune. In cima al paesino esisteva un monastero antico e parzialmente diroccato che anche solo una decina di abitanti, capaci muratori e manovali, avrebbero potuto riparare e salvare dal degrado. Sarebbe bastato dedicare poche ore la settimana allo scopo, senza che questo danneggiasse in alcun modo l’economia dei singoli, che avevano molto tempo libero da ogni attività. Anzi era possibile ipotizzare qualche interessamento del Comune capoluogo per un’iniziativa del genere. Avrebbero dovuto mettersi d’accordo e avere un obiettivo comune. Ma questo andava contro alla diffidenza per tutti gli estranei al microcosmo strettamente familiare. I sociologi, di fronte a simili fenomeni, parlano di una resistenza ‘inconscia’: si paralizzano le potenzialità del capitale sociale cooperativo, mentre la diffidenza per l’oggetto esterno si degrada a presenza ostile. La subcultura delle organizzazioni criminali, fortemente familistica, sembra trovare qui una sua radice: non rubare alla collettività, allo Stato, equivale a danneggiare la propria famiglia. Per altro vengono in mente recenti fatti di cronaca, che hanno visto tesorieri di partiti diversi utilizzare gli imponenti fondi per il finanziamento pubblico, in una logica del tutto familistica e privata. In un caso le spese di questo tipo erano registrate in una cartella sotto la dizione “The family”: l’uso dell’inglese è l’unica traccia di modernità”.
Famiglia nucleare, familismo amorale, subcultura delle organizzazioni criminali fortemente familistica… siamo nel cuore del problema?
“Un modello utile dal quale partire per tentare una lettura compiutamente psicoanalitica di questi complessi fenomeni è rappresentata dalla teoria dei codici affettivi di Franco Fornari che ha dato una felice rappresentazione iconica degli intrecci tra madre, figlio e padre, utilizzando il quadro del Giorgione “La tempesta” (1505). Qui la madre e il suo bambino sono nudi, con il solo lenzuolino del parto, in un contesto naturale di prato e piante e hanno di fronte un soldato vestito e armato, separato da loro da un fiume.
Sullo sfondo una città come emblema della cultura umana. Un’armonica rappresentazione, quindi, del codice paterno di fronte a quello della madre e a quello del bambino e un equilibrato fronteggiarsi di natura e cultura. Come possiamo immaginare l’alterazione di questi rapporti all’origine delle subculture criminali italiane? La coppia madre bambino è immersa in un contesto di natura che ignora la cultura distante, rappresentata dalla città lontana, e il soldato-padre, anch’esso distante, separato dal fiume, attende neghittoso, ma armato, che la grande madre gli consegni il futuro soldato. Insomma in questa sorte di animazione delle immagini di Giorgione (e di Fornari) si intravvede la presa di potere di un codice materno squilibrato e assoluto, mentre il codice paterno armato suggerisce solo le strategie di conquista, di predazione verso l’esterno. Il termine ‘mammasantissima’, per definire un capo mafia, esprime questa commistione. E’ come se, in questo contesto, la figura del padre, quasi evaporata, assumesse una curvatura perversa: non c’è una relazione tra padre e bambino; la relazione sociale è cristallizzata nella presenza superiore di una ‘legge’, centrata su avidità e distruzione. E l’autorità diventa potere”.
“Partendo dal concetto sociologico di familismo amorale, si può immaginare che ci sia una distorsione per la eccessiva distanza del codice paterno (oltre il fiume); un codice armato, che interviene in ritardo. Madre e bambino sono abbandonati ai pericoli della loro fusionalità, all’esplosione di un codice materno impazzito: la ‘Grande Madre mediterranea’ originata da culture preistoriche matriarcali e trasmessa nei millenni, prima dalle raffigurazioni paleolitiche delle dee della fertilità, poi dalle figure mitiche e letterarie quali Cibele, Circe, Demetra fino a Maria Vergine. Il contesto della relazione di accudimento, centrato sulla potenza e sacralità dell’atto creativo, funzionale alla sopravvivenza della nostra specie, assicura cura e protezione del bambino, conferendo alla madre la magia di un potere assoluto, capace di tutto comprendere, di tutto sopportare, di tutto perdonare. Potremmo dire che la dimensione della relazione a due, intima e intrafamiliare, si espande a costituire un modello delle relazioni interpersonali allargate, inquinando quanto di impersonale e pubblico dovrebbe governare il contesto sociale.
Questa fusionalità esasperata, insieme alla figura del padre che interviene come forza predatoria esportata all’esterno e non equilibratamente convogliata all’interno del rapporto con il figlio, sfasa il bambino che diventa un onnipotente sfrontato”.
“A livello di mentalità di gruppo, nel contesto di cui stiamo parlando riferito a mafia, camorra, ‘ndrangheta, naturalmente al Sud come al Nord, sembra inceppato il meccanismo che consente di sentire nell’estraneo anche qualcosa di sé stessi: saremmo di fronte a una specifica patologia del legame, con un deficit del rapporto fra sé e il mondo. L’altro diventa un soggetto-oggetto persecutorio e quindi da predare in carenza di uno scenario, di un campo sociale condiviso. Ma la prima vittima della Grande madre è proprio il femminile”.
Il che, nello specifico della nostra società significa…
“Questi elementi trovano una loro tragica attualità nella condizione della donna nelle subculture criminali: una recente inchiesta, giudiziaria e giornalistica, ha ricostruito decine di casi di omicidi negli ultimi dieci anni (o di suicidi molto sospetti) di donne facenti parte di clan malavitosi: la loro colpa è sempre consistita nel rivendicare una libertà affettiva, che le ha portate a sviluppare normali relazioni sentimentali, ma che hanno rappresentato la rottura, e la sfida, dell’arcaico dualismo: da madonne sono diventate puttane e questo ha diretto contro di loro il flusso di violenza assassina presente in questi contesti. Vicende che richiamano la ‘degradazione psichica dell’oggetto sessuale’ di cui parlava Freud”.
Parliamo ancora di attualità e commentiamo quello che diceva poc’anzi: “non rubare alla collettività, allo Stato, equivale a danneggiare la propria famiglia”
“Alcune attività criminali quali la gestione dei rifiuti specie tossici, le così dette ecomafie, o la sistematica cementificazione del territorio sono specifiche caratteristiche di questa distruttività. Pensiamo ad esempio ai casi di creazione di discariche abusive ‘dietro casa’ con l’avvelenamento dell’ambiente abitato dai criminali stessi e dalle loro famiglie; o all’affondamento di navi cariche di sostanze pericolose proprio nel mare di fronte a dove vivono. Oppure ai tanti ‘sacchi’ urbanistici fin dagli anni ‘60 da Palermo a Roma e più in generale lungo centinaia di chilometri delle nostre coste; ma tutto il territorio nazionale rischia una solidificazione edilizia, molto spesso prodotta da capitali illegali, che trovano così un investimento e un riciclaggio sicuro, con l’attacco alle superfici destinate a coltivazione agricola e quindi all’autonomia alimentare.
La progressiva distruzione del territorio porta con sé inoltre, uno squilibrio idrogeologico alla base di ricorrenti catastrofi ‘naturali’ e provoca un’urbanizzazione senza regole con il logoramento della cultura rurale. Parallelamente l’attacco al paesaggio rappresenta una ferita all’immagine di bellezza. E’ un senso di non appartenenza, un distacco dalla realtà, o meglio ancora, un esame di realtà non centrato; è un atteggiamento psicotico. E’ quello che il poeta Zanzotto ha drammaticamente descritto quando scrive che dopo i campi di sterminio, siamo sfregiati dallo sterminio dei campi”.
“Ci confrontiamo con una cultura del saccheggio dei beni comuni, della dilapidazione della res pubblica, che, percepita come altro da sé, viene profanata per stabilire un ordine negativo, rovesciato, che al di là di aspetti di immediato vantaggio, ha qualcosa a che vedere con gli spettacolari rituali dello spreco del potlac. Queste cerimonie presenti nella cultura di alcune tribù di nativi americani del Nord Ovest consistevano nella distruzione di quote importanti di beni utili e preziosi per quelle economie. Il godimento di un bene non si emancipa a piacere, ma si struttura piuttosto, nell’accumulo dispendioso, dell’immobile cemento e del mobile denaro, che nel sistema criminale si sposta incessantemente da una parte all’altra del mondo, contaminando e rendendosi spesso indistinguibile dal mondo della finanza, feroce, ma, almeno in partenza, legale”.
Da una parte all’altra del mondo, appunto. Solo gli Italiani vivono queste dinamiche?
“Ernst Bernhard, psicoanalista junghiano, ebreo nordeuropeo emigrato a Roma, alla fine degli anni Trenta, abbozzò una riflessione sul carattere degli Italiani, anarchici e passionali, capaci di grande sopportazione e inclini a qualunque compromesso, che lo portò a un interessante studio, seppur solo abbozzato, sulle caratteristiche per così dire collettive dei suoi pazienti. Erano gli anni nei quali il delitto d’onore veniva considerato, nel nostro Paese, alla stregua di fatto naturale, e per questo meritava pene irrisorie, all’insegna di una morale del perdono per tutto ciò che avesse alla base le passioni, e la loro irriducibilità a un’etica centrata sull’interesse collettivo. Il nostro è un Paese in cui gli aspetti intra-familiari, amorali, hanno avuto un particolare specifico rilievo. Non esiste altro Paese dove la presenza della Chiesa Cattolica abbia determinato sciagurato forte connubio tra spirito e materia, tra Potere temporale e Morale. Caratteristica assolutamente italiana. Per lo stesso motivo, se si considera l’intero bacino Mediterraneo, si registra, ad esempio, che i Paesi di matrice cattolica sono arrivati molto tardi alla cultura ecologica. Ci sono arrivati prima quelli nordici e Protestanti. Anche la Natura, così, entra tra le vittime della criminalità.”
Com’è il legame che collega criminalità e corruzione? Pensiamo anche a certi corrotti saliti di recente alla cronaca che pur si vedono estranei a questi fenomeni…
“La corruzione ha un aspetto di diffusione virale, di contagio paralizzante, che tende a promuovere nelle vittime processi di adesione conformistici. Nelle subculture criminali questo è evidente nelle modalità di cooptazione dei nuovi membri che, come primo atto, devono commettere un delitto, che lì legherà, senza ritorno, diremmo all’ ‘aggressore’ per usare il modello identificatorio. Dobbiamo a Primo Levi l’analisi, lucida ed equilibrata, della “zona grigia” da lui condotta nel mondo di Auschwitz, soprattutto nel suo “I sommersi e i salvati”. Lo studio delle dinamiche interpersonali nel lager consente allo scrittore di andare al cuore della struttura del potere degli aguzzini, che uccidono preliminarmente chiunque si opponga al meccanismo di arruolare al male le stesse vittime. Queste devono essere trasformate in “collaboratori”. Primo Levi più volte afferma di non aver visto mostri nel Lager, quanto una precisa struttura di dominio assoluto con le sue feroci regole. Questo è un punto prezioso perché consente di estrarre dal mondo di Auschwitz un elemento universale, che ritroviamo in contesti del tutto diversi: il bisogno di dividere con un taglio netto il campo fra noi e loro, dove questi sono estranei e totalmente diversi da quelli, tanto che non riconosciamo in noi nulla che a loro somigli. Più che vero sembra consolatorio”.
Sembra, quasi, che illegalità, criminalità e corruzione si inseriscano in un contesto di complicità e connivenza, che lei chiama zona grigia… molti eventi nel nostro passato sono rimasti incomprensibili e impuniti perché non siamo riusciti a separare i soli colpevoli dagli altri?
“Le torbide storie dello stragismo, con l’omicidio di centinaia di persone da Portella delle Ginestre o al Pac di via Palestro rappresentano un campo d’incontro e di fusione fra interessi economico-politici e più specificamente criminali. Sono sempre rimaste impunite quanto ai mandanti, per il meccanismo corruttivo-ricattatorio della chiamata in correo, del dossieraggio, degli scheletri nell’armadio utilizzato dai ‘pupari’, che lavorano fuori dalla scena. Il sistematico fallimento di ricostruzioni complete e attendibili di vicende, anche qui, uniche nel mondo occidentale, fa pensare al monito di Tiresia nell’Edipo re: “L’offesa alla verità sta all’origine della catastrofe”. Ma si può citare anche il “Discorso sopra lo stato presente degli Italiani” nel quale Leopardi ci definisce pieni di usanze e abitudini, ma privi di ‘costumi’, così che ‘ciascun italiano fa tuono e maniera a sé’ ‘’.
“Questo tendenziale ‘così fan tutti’, vicino all’arte di arrangiarsi della maschera di Arlecchino, è alla base dell’andamento ubiquitario e invasivo dei meccanismi d’illegalità, dai più veniali ai più pericolosi, e sembra passare inosservato e considerato, quindi, come un modo funzionale, o comunque inevitabile, di regolazione dei fatti sociali. E tutto questo sembra avvenire spesso alla luce del sole, senza vergogna e quasi senza la percezione che si tratti di comportamenti non etici e spesso illegali”.
Insomma, una sorta di psicopatologia della vita quotidiana…
“A questo proposito risulta intrigante la singolare ricerca di due economisti americani, Raymond Fishman e Edward Miguel, condotta analizzando il numero di contravvenzioni comminate ai diplomatici delle Nazioni Unite a New York. Dal 1997 al 2002 l’infrazione di sosta vietata veniva registrata, ma il corpo diplomatico era esentato dal pagamento della multa: gli studiosi hanno quindi stilato una classifica per nazione fra i 149 Paesi accreditati al Palazzo di Vetro, per analizzare il senso civico delle persone che, pur sapendo di non incorrere nella sanzione, non parcheggiavano in zone proibite, separando quindi il timore della legge dall’etica personale.
Risultato: l’Italia è al 101esimo posto insieme a Paesi come l’Iran, la Liberia, il Nepal e il dato è congruente con altri indicatori che misurano il livello di illegalità e di corruzione delle varie nazioni (Transparency International).
Questa vicenda se da un lato può farci sorridere, dall’altro pone una questione perturbante, relativa alla continuità qualitativa e discontinuità solo quantitativa nelle condotte devianti e chiama in causa l’ambiguo genius loci, la specificità antropologica e storica di cui stiamo parlando”.
Il mondo della criminalità organizzata, sostenuto da una parte del sistema politico, appare come un ambiente in continua minacciosa espansione, perché privo di limiti e regole nei confronti dello spazio e dei diritti altrui, tutto è possibile e tutti i mezzi sono utilizzabili, dal ricatto, all’estorsione, all’omicidio…
“Siamo di fronte a una libertà molto grande di fare quel che si vuole, perché nessuno mi ostacola, ma siamo di fronte anche a una libertà molto piccola, rispetto a chi determina le mie azioni e la mia vita. E’ molto alta la libertà negativa perché il mondo dell’illegalità respinge per definizione ogni interferenza, ma è molto bassa, asfittica addirittura, la libertà positiva, quella che rende le persone soggetti e non oggetti e che ha alla base la domanda ‘chi mi spinge a fare quello che faccio? chi determina le azioni della mia vita?’
Gli psicoanalisti sanno bene quanto sia al centro del lavoro analitico il cammino di soggettivazione, come acquisizione della ‘libertà di’ (ma soprattutto ‘libertà da’).
La confusione fra queste diverse declinazioni della libertà è alla base del declino civile italiano: il livello troppo alto di illegalità ha, troppo spesso, al centro l’intreccio fra criminalità organizzata e lo Stato, per cui questo ha il doppio, perverso ruolo di repressore e di promotore della corruzione, con modalità uniche nel mondo occidentale. Agli imponenti costi economici diretti e indiretti, legati, cioè, ai mancati investimenti stranieri nel nostro Paese, si aggiungono i costi sociali della corruzione con la perdita di sviluppo umano. La ricaduta culturalmente rilevante è determinata dalla vocazione claustrofobica del progetto criminale: una crescita solo parassitaria senza spinte centrifughe di sviluppo, priva di creatività, soffocata com’è da logiche di puro accumulo”.
Progetti criminali attorcigliati su se stessi, una corruzione che toglie creatività e crescita… è possibile formulare un pensiero reale di speranza?
“A Napoli nei quartieri più disagiati come Barra e Scampia, un centinaio di bambine e bambini fra i dieci e quattordici anni abbandonano la scuola dell’obbligo ogni anno, per lavorare come garzoni di bottega in imprese di pulizia, apprendisti di tutti i mestieri da parrucchiere a manovale, in concerie e fabbriche di jeans; più spesso lavorano al servizio della camorra, rubando rame nei depositi dei treni o come pali e postini dello spaccio.
Una Onlus che si chiama ‘Il tappeto di Iqbal’, dal nome di un bambino pakistano ucciso perché ribellatosi alla sua condizione di sfruttamento, ha organizzato una capillare rete di recupero, arruolando questi bambini in un’attività artigianale di circo itinerante, che li ha trasformati in clown, giocolieri e piccoli acrobati. Hanno creato un nutrito gruppo che ha attirato l’attenzione di molte persone, consentendo loro di guadagnare in una sera quello che prima guadagnavano in due settimane e rendendo possibile il loro rientro a scuola: sono diventanti una sorta di studenti lavoratori. Ma quello che più mi ha colpito è che questa iniziativa, una fra le tante del ricco capitale sociale italiano, ha ridato la parola a questi ragazzini. Per come racconta uno dei fondatori di Iqbal “prima se chiedevi cosa vuoi fare da grande? raccoglievi silenzio o lacrime, ora dovremmo fare un romanzo delle fantasie e dei progetti”.
Sempre in maniera embrionale, si fanno strada, nel racconto dei ragazzini impegnati nelle diverse attività del piccolo circo, la capacità e il merito individuale, che si oppongono alla cooptazione per fedeltà e appartenenza familistica. Il piccolo esempio napoletano è suggestivo anche perché ha al centro la parola e l’ascolto, attrezzi base del lavoro dello psicoanalista. Non a caso fra le centinaia di persone uccise dalle organizzazioni delinquenziali, spicca una pattuglia di giornalisti da Mauro de Mauro a Peppino Impastato a Giancarlo Siani che avevano fatto del racconto, dello svelamento della verità, l’arma più pericolosa per il crimine nelle sue articolazioni politico-finanziarie e l’esempio migliore contro la negazione omertosa.
Il male esiste e sfida le nostre possibilità emotive e razionali: per poterlo guardare e rimanere umani, dobbiamo trovare una parola che lo nomini”.
di Vitalba Paesano da Social Trends GfK Eurisko, novembre 2012