“L’arte di portare il soprabito”, di Sergi Pàmies

Ci siamo conosciuti accanto a una piscina d’hotel dove non galleggia ancora nessun cadavere. È la festa di compleanno- cinquant’anni – di un famoso speaker radiofonico. Siamo quasi duecento invitati, il risultato di una selezione che com- bina parenti, amici e colleghi di lavoro. Lo sguardo abbraccia dodici chilometri di spiaggia a forma di luna crescente, un orizzonte che intreccia tutti i colori del tramonto e una processione di aerei che, in rigoroso ordine di apparizione, sfilano verso l’aeroporto. Ci ha presentato un’amica comune, che ha ripetuto che ci piacerà conoscerci. Mentre ci scambiamo i due baci protocollari, entrambi notiamo nell’altro la stessa combinazione di timidezza e tensione. Forse per non contrariare l’amica comune, il nostro primo sguardo è di rassegnazione, come se, senza dircelo, decidessimo di sbrigare la questione il prima possibile. La fase di studio dura finché non ci sincronizziamo. La nostra amica se ne va e ci abbandona a noi stessi. Ora dipende solo da noi che la conversazione anneghi o meno nella piscina. Facciamo del nostro meglio. Tu, con una deferenza di cui ti sono grato. Io, con una goffaggine aggravata da anni di inattività. Alterniamo domande e risposte effervescenti finché, a corto di argomenti, propongo di andare a bere qualcosa al bar. Tu prendi del cava e io del vino e, dato che mi conosco, reprimo la tentazione di ricavarne qualche teoria. Brindiamo alla salute del festeggiato, che ci ringrazia e annuncia che tra qualche mese reciterà in un’opera teatrale. Non lo applaudiamo perché abbiamo una mano occupata dal bicchiere, e ci chiediamo come riuscirà a conciliare le rappresentazioni teatrali con le sei ore di programma che conduce quotidianamente.

«Non dormirà» concludi con un categorico buonsenso. Proprio in quel momento faccio ciò che non avevo ancora osato fare: oltre a sentirti e a vederti, ti guardo e ti ascolto. Il fatto che la vita mondana mi agiti non mi impedisce di percepire l’armonia tra il colore dei tuoi occhi e la vivacità introversa dello sguardo, l’importanza che sembri dare ai tuoi capelli e l’affabilità del sorriso. Le domande non sono più effervescenti e, anche se parliamo di lavoro, ho la sensazione di riprendere una conversazione cominciata da tempo. Differenze tra poco fa e adesso: poco fa non mi interessava sembrare misantropo e adesso farei di tutto per non esserlo. Da quando ci hanno presentato saranno passati dieci minuti appena e hai avuto modo di dirmi che sei laureata in Lettere (con una tesi sulla funzione del paesaggio nei racconti di Mary Shelley e Edgar Allan Poe) e che stai per avviare un progetto imprenditoriale. Ordino le domande che vorrei farti in formazione discendente, come gli aerei diretti all’aeroporto. Come torre di controllo prendo il riferimento dei tuoi occhi, che trasmettono una serie di segnali che mi piacerebbe tanto saper interpretare.

Bevo un sorso di vino più lungo del dovuto. Un sommelier ci sentirebbe delle note di disorientamento, un retrogusto di panico e l’adrenalina fruttata delle aspettative. Ormai non fingo di avere una conversazione: ce l’ho. E questo implica di ascoltare più che di parlare, e di non precipitarmi né chiederti per quale motivo hai studiato Lettere né quale strana ironia ti abbia spinto a scegliere Shelley e Poe. Però, proprio quando sto per parlarti con una certa continuità per migliorare l’impressione che ti starò facendo, l’anfitrione prende di nuovo il microfono e, raggiante, invita tutti a continuare la festa al ventiseiesimo piano dello stesso hotel, in una discoteca prenotata per l’occasione. Quell’annuncio provoca la dispersione dei presenti. Vicino a te appare un uomo che ha ancora un’età e un aspetto per considerarsi giovane e che, con una confidenza più confacente a un fratello che a un amico, ti chiede – quasi ti esige – di accompagnarlo. Allora mi rendo conto di non sapere niente di te. Hai dei figli? Sei separata anche tu? Sei venuta da sola? Non so nemmeno quanti anni hai, ma mi sembri di quel tipo di persone che dimostrano l’età che hanno. Mi faccio da parte e, con la sportività di chi non sa competere, accetto che dobbiamo essere arrivati alla fine del rituale protocollare. Non ci salutiamo, e mi piace credere che dipenda dal fatto che riteniamo la festa sufficientemente informale da favorire queste dinamiche. Ti allontani con il tuo amico-fratello mentre io saluto altri invitati e mi obbligo ad analizzare il nostro incontro con pragmatismo: certamente non sei venuta da sola e certamente sei sposata. I presenti, prevalentemente in coppia, aspettano l’arrivo degli ascensori. Per poterci entrare – dieci secondi di salita supersonica – dobbiamo indossare un braccialetto arancione (per le consumazioni illimitate) con su scritta la parola eclissi in un cerchio. L’ultima volta che indossai un braccialetto fu all’ospedale, ricordo. Mi ricoverarono dopo una lipotimia e un attacco di amnesia, e poi formularono una diagnosi che, invece di tranquillizzarmi, mi deluse: stress.

Dai finestroni del ventiseiesimo piano la vista è migliore. La grandezza verticale e orizzontale del paesaggio è completata da una prospettiva insolita della piscina. Nonostante la distanza, che riduce le proporzioni a quelle di un plastico, giurerei che c’è un cadavere che galleggia sull’acqua perfettamente illuminata. Evito di fare commenti perché potrebbe trattarsi di un’allucinazione ed entro nella discoteca. Schivo la potenza degli altoparlanti e, al bancone, cerco di partecipare ad alcune conversazioni su due questioni onnipresenti: Twitter e l’indipendenza. Quando parlo, ho la sensazione che nessuno mi senta. Non ti cerco con gli occhi per non dare l’impressione di voler forzare un incrocio di sguardi falsamente fortuito. Come sempre, invidio la sfrenata disinvoltura di quelli che si sono messi a ballare. L’anfitrione, felice, parla con un famoso musicista amico suo, che si è offerto come DJ con un repertorio perfetto, né troppo nostalgico né troppo moderno. Ordino un gin tonic e me lo servono con le proporzioni degli ingredienti invertite. Lo bevo con l’impazienza di vedere quanto tempo impiegherà a fulminarmi il mix tra l’alcol e i nuovi farmaci che mi hanno prescritto. L’effetto è immediato. I minuti mi si inceppano nel cervello, paralizzano i neuroni più attivi e mi fanno sentire più circospetto di quel che sono. Forse è per questo che, quando degli amici che abitano vicino a casa mia mi propongono di an- dare via e di accompagnarmi con la loro macchina, accetto sapendo che mi pentirò di andarmene senza dirti niente. Saluto lo speaker radiofonico con una stretta di mano cordiale, però, quando arriviamo al parcheggio, ricevo un suo sms in cui mi dice: Mi dispiace che tu non ti sia divertito. Ma ti ringrazio per essere venuto. di tutto cuore. ciao! Mi domando come abbia fatto a diagnosticarmi uno stato d’animo che nemmeno io so quale sia. Nel frattempo, gli amici che si sono offerti di accompagnarmi bisticciano con la cassa automatica del parcheggio perché non accetta una carta di credito aziendale pensata per non essere rifiutata in nessun caso. Sempre più collerici, ci provano ripetutamente finché, per calmare la situazione, non introduco una banconota che la cassa divora avidamente. «Le macchine preferiscono i contanti alle carte di credito» affermo come se pronunciassi un aforisma neoliberale. Saliamo in auto e lasciamo l’hotel attraverso una rampa di curve malefiche. Più che stridere, gli pneumatici gemono. Dobbiamo frenare vicino all’uscita perché, tra due macchine della polizia, alcuni infermieri con i gilet catarifrangenti stanno caricando un cadavere nascosto da una coperta termica su un’ambulanza. La barella ci passa abbastanza vicino da permetterci di riconoscere la manica bagnata e il braccio penzoloni – con il braccialetto al polso –, i mocassini del morto, identici ai miei, e, illuminati dalle luci delle sirene, le unghie delle mani mangiate e un orologio Swatch che, come il mio, è indietro di tre ore. Mi immagino la nostra amica comune che domani ti telefonerà per dirti: «Ti ricordi l’uomo che ti ho presentato? Be’, lo hanno trovato annegato nella piscina». Le indicazioni della polizia ci obbligano a percorrere dei quartieri di cui ignoravo l’esistenza. Attraverso i vetri scuri della macchina, la città sembra la capitale di un paese di vampiri che si alimentano, oltre che di sangue, di rumore e di euforia. Si muovono in gruppo, al rallentatore, e quei pochi che non sono occupati a scrivere sul cellulare ci salutano quando passiamo sulle stri-sce pedonali senza rispettare, né noi né loro, il colore dei semafori. Sospetto che questa sensazione allucinatoria sia una strategia di fuga per non ammettere che, contravvenendo a tutte le terapie, penso a te più di quanto sia capace di assimilare. E sento anche che i minuti in cui siamo stati insieme non basteranno quando vorrò ricordarti con garanzie di esattezza. Prima che sia troppo tardi, quindi, scannerizzo mentalmente i tuoi occhi, i capelli e i vertici del sorriso. È un sorriso che promette calorose risate che, se non fossi morto e disteso sulla barella di un’ambulanza, mi piacerebbe condividere.

Bozza di relazione per un ipotetico congresso di separati

Le coppie che si separano non dovrebbero aspettare né il decadimento nella noia né la tentazione dell’inganno. Nel momento dell’apogeo, quando l’amore si nutre delle affinità e dell’entusiasmo, dovrebbero essere sufficientemente generose da lasciarsi e, con la soddisfazione per il lavoro ben fatto, mettere insieme un punto finale che non disonori i giorni passati. Così si risparmierebbero il dolore delle rinunce e il castigo di interpretare i sentimenti per quello che sono e non come il pretesto per trasformare l’affetto in repulsione o indifferenza. Come i migliori atleti, che sanno rendersi conto dell’imminenza del declino, gli amanti dovrebbero proteggersi reciprocamente con lealtà e coraggio. Sarebbe coerente con il rispetto per una libertà che, quando le relazioni si prolungano solo per ostinazione, languisce fino a putrefarsi. Non è vero che il logoramento sia impercettibile. Molto prima di suppurare, si manifesta attraverso dei particolari che le coppie notano ma negano di proposito, sia perché l’inerzia atrofizza la loro capacità di decisione, sia perché preferiscono sperare in tempi migliori.

Anche se non sembra, certi rinvii possono essere utili. La prova è che spesso si concretizzano in figli e in periodi di convivenza capaci di trasformarci così tanto che, quando cerchiamo di tornare come eravamo, ci rendiamo conto che i sentimenti evolvono più velocemente delle persone che li provano. Questo squilibrio provoca dei malintesi e moltiplica le possibilità di negare l’evidenza. Il senso di colpa accentua la mediocrità dell’epilogo. È per questo che nei primi secondi della rottura vera e propria reagisco cercando di essere all’altezza non dei nostri ultimi anni insieme, bensì di tutta la storia che abbiamo condiviso. Rivedo la scena, che probabilmente assomiglierà a quella che molti di voi hanno vissuto. Lei mi dice ciò che mi aspetto da tempo. Che dobbiamo parlare. Che non mi ama più. Che ha incontrato qualcuno. Che si stanno conoscendo. Prima di tutto, provo caldo e vergogna. Sono due sensazioni contraddittorie, impreviste e bestiali. Constato che il caldo è più emozionale che fisico. La vergogna, invece, mi irrigidisce i muscoli e fa saltare in aria quell’impalcatura di normalità sulla quale, senza accettarne fino in fondo i rischi, ci siamo rifugiati. Non mi ci vuole tanto per capire che quello che abbiamo appena avviato è un cambiamento irreversibile, ma con molte conseguenze. La tristezza tarda ad arrivare e, con un senso delle priorità che mi sorprende, mi impongo come condizione di non ingannarmi. Se lo avevo intuito, non posso compor- tarmi come se fossi sorpreso. Quindi, per risparmiarci inutili tensioni, antepongo i princìpi alle emozioni. L’abisso che abbiamo creato è riassunto nel modo in cui lei incrocia le braccia e abbassa lo sguardo, estenuata per essersi spinta oltre i suoi limiti abituali. Individuo l’origine della mia vergogna: la consapevolezza che il fatto che io la ami non le dà più niente, nemmeno il conforto di una compagnia più volenterosa che efficace.

Siamo in cucina, che mi è sempre sembrata il luogo idoneo per dirsi le verità. Nelle cucine l’intimità è relativa. Vi si sentono spie sonore di asciugatrici e centrifughe di lavatrici provenienti dal cortile interno e la vibrazione ciclotimica del frigorifero funge da mediatore equanime. La guardo e, senza dirglielo, la ringrazio per ciò che in altri momenti le ho rinfacciato: la tattica di rifugiarsi in silenzi insondabili che precedono – con lei si ha sempre l’impressione che dietro a ogni abisso ce ne debba essere un altro – un nuovo silenzio. Stavolta le apparenze non ingannano. I neon rendono più dura la nostra espressione e frenano la tentazione di piangere. Sono solo cinque minuti che ci siamo separati e mi sento come se fossero dieci anni. Ormai lo posso ammettere: mi sono preparato in modo subcosciente per arrivare a questo punto. Ho superato tutte le fasi dell’allenamento, le più esasperanti e le più incoraggianti. E mi meraviglia la quantità di risorse che scopro di avere. Sono anche impaziente di vedere fino a che punto questa preparazione mi aiuterà a evitare il parossismo dei rimproveri e dei lamenti. Posso convertire la rottura in un atto che dia coerenza a tutto ciò che abbiamo vissuto senza sporcarci più di quanto sporchi l’esserci mantenuti imprigionati per un rispetto che oggi è ormai obsoleto. Quando ci conoscemmo, improvvisavamo. Perciò prevedo che, in questa fase di disamore che abbiamo appena inaugurato, dovremo essere più rigorosi e non potremo farci accecare dai capricci della spontaneità. E la convinzione che ci sarà molto più amore in questa rottura che nel declino che l’ha preceduta agisce, non so perché, come un analgesico.

Non eravamo una bella coppia. Lo sapevamo entrambi, ma avevamo il buongusto di non parlarne. Quando due persone si conoscono e si sentono attratte reciprocamente, il modo in cui in seguito ricordano il primo incontro è di solito bene- volo. Nel nostro caso, però, la seduzione non fu reciproca. Da anni ero disposto a farmi sedurre e non avevo mai immaginato di avere la fortuna di essere addotto – è il verbo che più si avvicina a ciò che successe – da una persona come lei. Analizzando il tutto con un certo rigore retrospettivo, ipotizzo che fu la conseguenza di una realtà precedente che non ho mai conosciuto. Che le ragioni per cui si interessò a me dovevano avere a che fare più con delle circostanze legate al suo vissuto – tessere di domino precedenti a me – che con le mie doti di seduzione. Per fortuna o per disgrazia, di certe cose non te ne rendi conto mentre le vivi, ma più tardi. Ci conoscemmo a una festa e condividemmo da subito una curiosità che mi diede l’impressione di aver vinto la lotteria o di essere vittima di una scommessa perversa. Dato che a quei tempi equiparavo ancora la novità all’allegria, sottintesi che quell’esperienza sarebbe stata tanto irripetibile quanto fugace. La prova è che, l’indomani dei vari giorni che la memoria ha convertito in uno solo, quando uscii da casa sua con l’euforia dei prescelti – ballando per strada, imitando la scena della pubblicità di un profumo di allora –, non mi passò per la testa che ci fosse qualche possibilità di rivederci. È difficile da dire ma, quando ci si mette insieme, ci sono degli aspetti che converrebbe non perdere mai di vista. In generale, l’unione di due persone suole presentare degli squilibri evidenti di bellezza, di status o di intelligenza. Io perdevo in tutti e tre i confronti, e avrei potuto pareggiare con lei solo in quanto a simpatia (la mia simpatia di allora, chiaramente) e a predisposizione per vivere le ore piacevoli che il caso avesse voluto regalarmi e, arrivato il momento, in quanto a volontà di saper perdere. Perciò mi sorprese così tanto che volesse rivedermi. E ancor di più che, qualche settimana dopo, fossimo inseparabili (mentre lo scrivo percepisco la fragilità di questo aggettivo). A quel punto, mi concentrai a vivere l’amore corrisposto con la stessa intensità con cui avevo vissuto altri amori non corrisposti. Riprendo il paragone con la lotteria: forse è vero che chi la vince è cosciente dei rischi che corre, ma, giustamente, va avanti, anche solo per scoprire fino a quale imprevedibile catastrofe può portarlo il privilegio di averla vinta. Sono gli anni che ricordo con più piacere. Avevano la giusta dose di sorpresa e varietà e includevano molti viaggi e, almeno da parte mia, uno stato permanente di gratitudine. In altre parole: anche se ero capace di credere che l’amore fosse corrisposto, ritenevo pure che, da un punto di vista scientifico, era improbabile che una come lei si fosse innamorata di uno come me. Non lo dico né per falsa modestia né per fare la vittima. Anzi. Proprio perché sono vanitoso, optai per prolungare l’amore al massimo, fiducioso che avrei trovato la maniera di tenerlo vivo. Il passaggio naturale dall’eccezionalità alla routine, però, mise in evidenza i nostri difetti. Con una particolarità: i miei difetti erano più gravi per lei che i suoi per me. Io ero impaziente e manifestavo una malsana capacità di soffrire inutilmente e, soprattutto, a sproposito. Ci sono circostanze attenuanti della mia infanzia che potrebbero giustificarmi davanti a una commissione di psicoanalisti, ma, a livello pratico, era una sofferenza che si poteva confondere con una gelosia protettrice per niente drammatica ma ugualmente pesante. E inoltre ero noioso. Della noia se ne parla poco, ma voglio approfittare di questo congresso di separati per dire che la ritengo il primo fattore di inasprimento delle relazioni. Sono così noioso che, grazie al mestiere di scrittore, mi sono dovuto inventare tutta una filosofia sulla grandezza dell’uomo grigio e normale contrapposto al topos letterario dell’avventuriero insaziabile e all’apologia del movimento, della novità e della fantasia. È un espediente pensato per non far notare troppo la mia facilità di essere, persino quando non me lo prefiggo, di un’insipidezza tragicomica. È anche vero che ne sono sempre stato cosciente e che, pertanto, era facile prevedere che avrebbe finito per diventare un problema. Però, senza sapere né come né perché, l’amore continuava, almeno in apparenza. E dato che noi persone noiose non ci annoiamo ad annoiarci, non mi rendevo conto di quanto quella circostanza minasse le aspettative di una come lei, che, per definizione, non era noiosa, o lo era in un modo diverso. Anzi: proprio perché conoscevo tutti i segreti della noia, diedi per scontato che avrei superato facilmente la fase di stallo che vivono tutte le coppie e che era la persona giusta perché non dovessi cambiare troppo le mie abitudini. Pur non avendone consultato mai nessuno, so che di solito i terapeuti matrimoniali consigliano di incrementare la comunicazione, la sincerità e di favorire le conversazioni sul noi. Io, invece, non credo nella sincerità elevata a dogma. Preferisco l’intuizione alla certezza. Dato che entrambi mantenevamo il rispetto e l’affetto e io continuavo a sfruttare il fattore fortuna con un’avidità temeraria, era tutto tranquillo. Allora sapevo già che non eravamo una bella coppia e che il responsabile di quella discordanza ero più io di lei. È una semplice questione matematica. Se tra i due ce n’è uno che ha tutto per formare una bella coppia con il novantanove per cento del genere umano mentre l’altro no, non ci piove. Però non voglio annoiarvi con queste asimmetrie evidenti e concludo. Un giorno, durante un viaggio in Portogallo, visitammo il santuario di Bom Jesus. Vi si arriva in macchina, ma poi, dal parcheggio, bisogna salire delle scale che non finiscono mai. Ricordo la salita come uno dei nostri grandi momenti di autenticità. Le coppie diventano più coese nei silenzi che nelle conversazioni. Mentre salivamo, calcolavo di quanto ero ingrassato da quando ci eravamo conosciuti. Era un pensiero inopportuno, ma come pellegrino non avevo nessuna esperienza e i miei livelli di spiritualità erano limitati come la mia resistenza fisica. Ogni rampa di scale era il preludio di un’altra fino a che, non so come, arrivammo in cima. Il paesaggio era imponente come pure la monumentalità del santuario, ma lo sforzo ci aveva provati visibilmente. Se all’inizio della salita eravamo a colori, quando arrivammo in cima eravamo in bianco e nero. E in quel momento, saltato fuori dal passato, apparve un fotografo ambulante come quelli che c’erano in fondo alla Rambla nell’Ottocento. Aveva una macchina fotografica da museo, pensata per impressionare i turisti incauti e che con noi funzionò. Ci mostrò dei tipi di fotografie volutamente kitsch. Una cornice a forma di cuore e, imprigionate all’interno, coppie consacratesi alla felicità che, per il candore anacronistico delle loro espressioni, avrebbero potuto essere la ragazza e il soldato della canzone Baixant de la Font del Gat. Ma noi eravamo moderni e condiscendenti con i nostri sentimenti. E quando ci facemmo quella foto non agimmo con una sincerità romantica ma con ironia, cercando più il piacere della parodia che il ricordo di un’emozione degna di essere incorniciata. Mentre eravamo in posa imitavamo lo stereotipo sdolcinato, però, alcuni minuti dopo, quando il fotografo ci diede la fotografia – in bianco e nero, come il ritratto melodrammatico di un fotoromanzo degli anni Sessanta – mi resi conto, soprattutto dall’espressione di lei e dall’abisso esistente tra la sua bellezza e la mia flaccidezza accentuata dalle sante scale, che non essere una bella coppia non era più un aneddoto ma, piuttosto, il nocciolo della questione. Però, invece di ammettere la verità – rivelata dall’astuzia del fotografo che, chissà se per accelerare il destino, aveva scelto l’immagine in cui eravamo venuti peggio – e di avere il coraggio di proporle di separarci sul momento, senza nessuna anestesia, optai per aspettare il decadimento nella noia. E invece di celebrare gli anni dell’apogeo, quando l’amore si nutre delle affinità e dell’entusiasmo, non ebbi né la generosità né l’accortezza, con la diagnosi irrefutabile della fotografia tra le mani, di dimettermi prima di essere licenziato.

Il racconto continua….

 

“L’arte di portare il soprabito”,

di Sergi Pàmies

  • Editore: SEM
    • In libreria: 8 aprile 2021
    • Pagine: 144 pp.
    • Prezzo: 16 euro

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In questi tredici racconti Sergi Pàmies sonda i sentimenti umani, la possibilità e l’impossibilità di rendere felici gli altri e l’incomunicabilità, dovuta a codardia, alienazione, rassegnazione. Ci parla di rapporti apparentemente banali, ma sempre incisivi, del sentirsi nel posto sbagliato, un’epifania spesso dolorosa e inevitabile. Ed ecco il protagonista del racconto d’apertura, invitato a una festa durante la quale viene trovato un cadavere in piscina; una coppia in crisi che si reca al santuario di Bom Jesus in Portogallo, per poi smascherare il proprio destino in una foto; il delicato sistema di finzioni che costituisce il legame tra un figlio e l’anziana madre scrittrice; il romanziere che passa il suo tempo a osservare le vite degli altri in aeroporto; il riflesso dell’attacco alle Torri Gemelle sull’equilibrio precario di una famiglia seduta davanti al televisore.
Le storie de L’arte di portare il soprabito confermano la grande capacità di osservazione di Pàmies e il suo talento nel dominare le forme brevi della narrativa. Con uno stile sempre più leggero e raffinato, in cui sentimenti e dettagli sono i protagonisti, il libro combina episodi dell’infanzia, ritrae la vecchiaia dei suoi genitori, riflette sul romanticismo della delusione o sul timore di non essere all’altezza delle aspettative dei bambini. Dalla perplessità dell’adolescenza alle cicatrici collettive della nostra contemporaneità Pàmies attraversa le sue storie con ironia, causticità, malinconia e lucidità e trova nella fascinazione per l’assurdo e nella capacità di sorprendersi gli antidoti più efficaci per combattere assenze, insuccessi, fallimenti e altri lasciti della maturità.
L’arte di portare il soprabito è un prezioso concentrato di memoria, emozione e piacere narrativo, dove racconti, a volte folgoranti, a volte crudi o esilaranti, conquistano la complicità del lettore.

Sergi Pàmies è nato a Parigi nel 1960 e vive a Barcellona, dove divide il suo tempo tra il giornalismo, in radio e tv, e la scrittura, per lo più di racconti e rigorosamente in catalano. Tra i talenti più amati del panorama letterario spagnolo, Pàmies ha ricevuto anche il plauso della critica internazionale. È stato insignito del Premio giornalistico Manuel Vázquez Montalbán.

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redazione grey-panthers:
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