Sul fronte lavorativo, la situazione, invece, è sicuramente più infelice. Abbiamo avuto il caso di una persona proveniente dall’Afghanistan la cui domanda di protezione internazionale è stata rifiutata anche in appello, nonostante la sua appartenenza agli Hazara –perseguitati, come è noto, dai Talebani– sia stata dimostrata e accertata dalle autorità competenti. Abbiamo ricevuto messaggi da parte della sorella di un altro nostro assistito, anche lui afgano, che si trova ancora in Afghanistan in quanto staff delle Nazioni Unite e che ci supplica di fare di tutto per assisterlo perché ‘lei ormai è una donna morta ma non vuole lo stesso destino per suo fratello’.
Ho poi assistito, tramite consulenza legale, un richiedente asilo Somalo, sbarcato a Lesvos a fine agosto, che è minacciato di morte dal gruppo terroristico Al Shabab nel suo Paese di origine in quanto ha lavorato per anni per organizzazioni non governative, nazionali e internazionali, i cui progetti –di aiuto umanitario– sicuramente si scontrano con i principali obiettivi di questi spietati gruppi armati. Alla fine della consulenza, con gli occhi bassi e due grosse lacrime repentinamente asciugate, mi ha detto: “a volte mi chiedo se io abbia fatto qualcosa di male per meritare tutto questo e se davvero io sia dalla parte del giusto”. Prima di partire ha nascosto moglie e figli in un luogo sicuro, chissà per quanto ancora.
Infine, giovedì c’è stato a Lesvos lo sbarco di ventisei persone e noi abbiamo fatto in modo che potessero registrarsi nel campo come richiedenti asilo, evitando così che venissero illegalmente respinte in mare, aggiungendosi potenzialmente alla tragica lista di migranti che trovano nel Mediterraneo la loro triste e silenziosa tomba. Fin tanto che le politiche migratorie non prenderanno in considerazione il rispetto dei diritti umani fondamentali, noi saremo qui.