Di questo libro mi ha colpito il titolo. Non ricordo esattamente dove l’ho visto, probabilmente su qualche sito che parla di libri o su qualche giornale. Ma ho notato quella parola, “classe”. Che era chiaro non stava a significare una classe di scuola, di yoga o di altro apprendimento, ma senza dirlo si riferiva a “classe sociale”. O almeno lasciava modo di pensarlo.
Ora converrete con me che la parola “classe” nel senso di classe sociale è diventata quasi un tabù. Nessuno ci crede davvero, ma si coltiva l’illusione che le classi sociali siano un fatto del passato. Sono sconvenienti, d’altro canto, perché implicano delle differenze tra le persone che, pur sapendo tutti che ci sono e vivendole tutti i giorni, ci piace fare finta che siano poco importanti. Noi signore e signori che abbiamo passato i fifty, invece, non ci scandalizziamo all’idea delle classi sociali e pure della lotta di classe. Ci abbiamo convissuto per anni. Che stessimo da una parte o dall’altra della barricata, o che cercassimo di stare nel mezzo, di classi sociali si discuteva, erano un dato di fatto, una realtà della nostra vita. E devo dirvi che non era neppure così brutto. Per quanto piuttosto grossolane come categorie, aiutavano a mettere un po’ di ordine nella realtà intorno a noi.
Quindi attratta dal titolo ho comprato il libro e ho cominciato a leggerlo. Complice questo periodo di casalinghitudine, l’ho letto in un paio di giorni, prevalentemente sulla sdraio del balcone, all’ombra del primo sole caldo. E man mano che andavo avanti nella lettura mi dicevo mi piace proprio, questo libro.
Prima di tutto ha un grande respiro, e cerca di raccontare il mondo del lavoro. Non sono tanti, i libri che lo fanno. Non a caso viene citato Ottiero Ottieri, il pioniere o forse tuttora l’unico, a provare, e riuscire, a narrare l’industria. Ci sono stati un altro paio di libri, secondo me, recentemente, che sono andati in quella direzione, “Le vite potenziali” di Francesco Targhetta e “In verità” di Dario Buzzolan, molto diversi tra loro ma accomunati dallo sguardo ampio, rivolto alla provincia italiana, all’industria a base familiare nata dall’artigianato, a rapporti umani complicati, ma di valore.
Albertini in questo romanzo racconta il lavoro come è sul serio adesso: quel senso di essere sempre in affanno, sempre alla rincorsa, sempre in ritardo; le nuove tecnologie che non hanno liberato del tempo dal lavoro e hanno aggiunto una reperibilità praticamente infinita; i tempi di risposta, siccome potrebbero essere istantanei, istantanei devono essere; e le relazioni con i capi e i colleghi, complicate, mutevoli, sfiancanti.
Il protagonista del libro lavora in un’azienda familiare della provincia nord ed è il figlio del padrone. Che però non è più il padrone, perché nella competizione globale di oggi non ce la fanno a resistere non solo le aziende piccole, ma neppure quelle medie. E quindi vengono acquisite, e gestite da manager che non si curano del territorio circostante, del passato e della storia, dei rapporti con la comunità, e guardano soltanto al profitto, che su quello solo si misura il successo. E i figli dei padroni, in questa nuova gestione alla tutto e subito, fanno fatica. Meno male, direte voi, già sono figli dei padroni, che altri privilegi dovrebbero avere? Forse semplicemente quello di essere trattati come tutti. Di avere le stesse possibilità, venire valutati con gli stessi criteri, puniti per gli errori e premiati per i meriti. Oops, neppure le aziende gestite dai manager usano questi metodi, che dico, in realtà è la fedeltà al capo, quale che sia, quello che conta.
Il protagonista del libro, infatti, è un figlio di padrone molto sui generis: si dà moltissimo da fare, è bravo, ha una sua etica, sta studiando lettere all’università perché il padre a suo tempo non gliel’ha lasciato fare, doveva entrare in azienda subito, fare la gavetta, imparare per poi prendere in mano il business. Nonostante la bravura evidente, nonostante l’impegno, il nostro viene ostacolato in tutti i modi: e l’operazione commerciale che alla fine conduce in porto, che all’azienda frutterà moltissimo sia dal punto di vista finanziario sia dell’immagine, viene fagocitata del capo che se ne arroga il merito. E il prezzo da pagare non è commisurato allo sforzo, ai sacrifici, alla costanza, alla tenacia, all’ingegno, al tutto se stesso che ha messo in gioco.
La “classe” del titolo conserva quell’ambiguità che mi aveva attratto all’inizio, un po’ è la “classe” di chi concepiva il successo monetario e sociale come un raffinamento, un cercare di essere più colti, più gentili, più eleganti, di chi potendo finalmente scegliere sceglieva il meglio; un po’ è la vecchia classe sociale nella nuova veste, i cui confini sono labili, vaghi, persino effimeri.
Ma quello che mi ha colpito di più nel libro è l’onestà, la sincerità del racconto. Non c’è stato un momento, in tutta la lettura, in cui non sentissi che stavo partecipando a qualcosa di vero. Qualcosa che allo scrittore importava moltissimo, qualcosa che gli premeva sul serio e più di ogni altra cosa. Non è una sensazione che provo spesso, e quindi mi è sembrata preziosa.
Le stesse sincerità e onestà le ho trovate nel racconto dell’infatuazione per una collega, che il protagonista prova dall’inizio del libro, che lo porta a mettere a rischio la sua vita familiare. Una famiglia con cui si trova bene, una moglie con cui ha ancora una bella intesa, dei figli con cui ha un bel rapporto. E non è un’attrazione fatale, quella che prova per la collega. È piuttosto una curiosità, un bisogno di aprirsi verso quello che potrebbe essere, un sogno, una possibilità. Mi è sembrata una finestra sul modo maschile di intendere il tradimento, sul sottovalutarlo, sul pensare di passarla liscia, e poi, una volta comunque scoperto e messo di fronte alla scelta, sul pentimento, sul senso del pericolo scampato. Non ha dubbi né esitazioni, il protagonista, quando si tratta di scegliere tra la collega oppure la moglie e i figli, ed è disposto all’espiazione e alla ricostruzione. Non cerca delle scuse che lo giustifichino ai suoi occhi in primis e a quelli della famiglia poi. Non si aspetta di essere accolto come il figliol prodigo. Accetta le prove per cui deve passare e si sente fortunato perché gli viene data una seconda chance.
Io trovo molto bello che uno scrittore sappia raccontarci il mondo in cui viviamo, e raccontandocelo sappia aiutarci a capirlo meglio, ci sappia dare le parole che aprono la porta della comprensione. Quella profonda, della mente e anche dell’anima. E trovo ancora più bello che uno scrittore ci sveli un punto di vista che non sapevamo esistesse o che non avevamo voluto prendere in considerazione, e quindi ci permetta di rileggere qualche episodio del nostro passato con una lente diversa, non necessariamente per correggerlo, ma per capire meglio o capire finalmente.
Credo che quando un libro assolve questo compito, sia già un regalo grandissimo che abbiamo ricevuto. E di questo sono grata ad Alberto Albertini. Buona lettura!
“La classe avversa” è il racconto del disfacimento di un paradigma, quello che vedeva nel modello industriale a gestione familiare il segreto del miracolo italiano. Protagonista di questo romanzo di fabbrica contemporaneo è “il Poeta”, figlio e erede di uno dei proprietari dell’azienda, costretto a mostrarsi all’altezza del ruolo che gli spetta mentre studia e sogna di laurearsi in Lettere. Quando il Presidente, azionista di maggioranza, affida l’azienda a un Amministratore delegato che si rivela un tagliatore di teste, sadico e accentratore, vorrebbe fare come Franco, suo amico fin dai tempi del liceo, che si ribella e si licenzia. Ma ha tra le mani una commissione che potrebbe cambiare il futuro dell’azienda e illuminare finalmente il suo successo, anche agli occhi di Laura, giovane impiegata appena arrivata in ufficio. Il rischio è far saltare entrambe le famiglie, quella dove timbra il cartellino al mattino, e quella con cui condivide appena una colazione e un tragitto in auto fino alla scuola. Con questo romanzo disincantato e lucido, in un dialogo immaginario con lo scrittore Ottiero Ottieri, Albertini dà voce e nuova dignità a una corrosione personale e collettiva che il lavoro sembra non essere più in grado di nobilitare.
Ci sono vetri opachi che diventano lucidi e sogni in bilico che sono pronti a cadere sulla terra. Esistono sguardi che non hanno direzione e sguardi che cercano la luce, come quello letterario di Silvia Greco. Se, malgrado tutto, vogliamo essere felici, questo è il libro per noi..(E.B.)