La solennità del Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini), che quest’anno si celebra domenica 11 giugno, costituisce l’occasione propizia per rivedere un quadro molto significativo, realizzato da Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, artista tra i più rappresentativi del barocco emiliano
Dato che ogni opera è frutto della personalità, cultura, sensibilità, predisposizione naturale e studio di un autore, non si può evitare una breve premessa circa la figura del Guercino prima di passare a osservarne il dipinto.
Giovanni Francesco Barbieri e il suo strabismo d’autore
Il pittore nacque nel febbraio 1591 a Cento, da famiglia di modeste condizioni e dal biografo Jacopo Alessandro Calvi veniamo a sapere che il soprannome gli derivò dallo strabismo del quale era affetto nell’occhio destro. Sin da bambino mostrò gran talento per il disegno e a otto anni “senza aver avuto alcun maestro e solo con la scorta di una immagine, egli dipinse la Madonna della Ghiara di Reggio sulla facciata della casa ove abitava” (Notizie della vita e delle opere del cavaliere Gioan F. Barbieri, Bologna 1808, Jacopo A. Calvi).
Considerate le attitudini del tutto eccezionali del fanciullo, il padre lo mise a bottega per fargli apprendere le necessarie nozioni dell’arte, prima a Bastìa, poi a Cento, quindi a Bologna.
Il giovane Barbieri trasse molto profitto dallo studio delle opere custodite in quei luoghi, in particolare dalle tele di Ludovico Carracci del quale fu fondamentale, per la sua prima formazione artistica, una Madonna con bambino e santi Giuseppe e Francesco, con committenti. Lo stesso Giovan Francesco parecchi anni dopo rivelò che la osservava “da vicino, senza stancarsi e arrampicandosi su una scala” nella chiesa dei Cappuccini di Cento, dove a quei tempi era collocata l’opera.
Nel 1615 e su consiglio del Carracci, l’arcivescovo di Bologna Alessandro Ludovisi -futuro papa Gregorio XV-, acquistò alcuni lavori del Guercino, aprendogli la strada a commissioni importanti e alla decisione di costituire una propria scuola di pittura, che l’artista ventiseienne fondò a Cento nel 1617.
Ludovico Carracci fu tra i primi a riconoscere le eccezionali qualità del giovane Barbieri
Lo elogiò infatti con belle parole in una lettera scritta al poeta Ferrante Carli nel 1617: “Qui vi è un giovane di Cento che dipinge con somma felicità d’invenzione. E’gran disegnatore e felicissimo coloritore, è mostro di natura e miracolo da far stupire chi vede le sue opere”.
Durante un soggiorno a Venezia iniziato nel 1618 Gioan Francesco Barbieri studiò i grandi maestri veneziani, tra i quali Tiziano e Jacopo Bassano, dalle quali opere l’artista trasse nutrimento e ispirazione per i suoi lavori successivi. Dal 1621 al 1623 il Barbieri fu a Roma dove, coadiuvato dal pittore Agostino Tassi, realizzò l’affresco dell’Aurora nella volta del salone centrale del piano terra del Casino della Villa Ludovisi e l’allegoria della Fama al piano superiore. In quella stessa città dipinse la grande pala d’altare della sepoltura di santa Petronilla per la Basilica di San Pietro, ora situata nei Musei Capitolini.
Nel 1626 fu a Piacenza dove completò gli affreschi della cupola del Duomo, rimasti incompiuti dopo la morte di Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone.
Tornato nella sua cittadina natale Giovan Francesco dipinse Cristo che appare alla Madonna per l’oratorio della Compagnia del Santissimo nome di Dio. Il quadro, intenso e toccante, oggi è conservato in una sala della Pinacoteca Civica di Cento dove, tra le molte tele dell’artista, è possibile ammirare la storia dell’evoluzione della sua pittura e del suo stile: dall’intensità e drammaticità dei chiaro scuri e delle pose, tipiche del fervore della sua giovinezza e profondamente coinvolgenti dal punto di vista emotivo, alle composizioni meno vigorose e più rasserenanti della sua maturità, caratterizzati da figure dalla postura più composta e dalle linee addolcite e idealizzate.
Lo stile giovanile del Guercino è ben tratteggiato dalle parole di Giambattista Passeri: “Formandosi di suo genio la maniera e imitando religiosamente il naturale, uscì fuori con uno stile nuovo di colorire di gran forza, e valore, facendo in esso scoprire un ardimento di scuri gagliardi, ma con gran dolcezza, per l’unione con che accompagnava insieme il chiaro e lo scuro, con mirabile artificio e rilievo” (Vite dei Pittori e Scultori ed Architetti, G.B. Passeri, 1772).
Nel 1642 il Barbieri si trasferì da Cento a Bologna, dove morì nel Dicembre del 1666 e dove venne sepolto nella Chiesa di San Salvatore.
I suoi biografi lo definiscono ricco di pregi, mite, riservato e laboriosissimo, egli preferiva a tutto lo studio, la pace, l’amicizia, la virtù. Lo storico dell’arte Carlo Cesare Malvasia lo descrive così: “temperamento buono, tendente al sanguigno. Natura piacevole e conversazione gustosissima. Sincero e nemico della bugia. Cortesissimo, umile, compassionevole, religioso e casto. Di memoria grandissima. Diceva bene di tutti e sollevò dalla miseria molti amici. Guadagnò tesori con le sue fatiche, li spese generosamente, e la maggior parte in sollievo degli altri” (Felsina Pittrice, II Tomo, Carlo C. Malvasia, Bologna 1678).
E veniamo al quadro di san Tommaso d’Aquino
Il quadro di san Tommaso d’Aquino nell’atto di scrivere il Pange Lingua fu eseguito nel 1662 quando l’artista, sopravvissuto ad un infarto, si trovava in età avanzata ma ancora all’altezza di realizzare opere di gran valore, come si nota dal dipinto che costituisce la pala d’altare del transetto destro della basilica di san Domenico a Bologna.
La tela risulta decisamente gradevole per la nitidezza, l’armonia delle tinte e per l’eleganza della composizione che fissa le varie figure nel loro atteggiamento naturale. Essa rappresenta il giovane domenicano in primo piano e in posizione centrale tra due colonne con uno stilo nella mano destra, in atteggiamento di dialogo con gli Angeli che lo ispirano e lo assistono nell’atto di scrivere l’Ufficio del Corpus Domini. La posizione rilassata del corpo del frate, appoggiato allo schienale col braccio sinistro sul sostegno della sedia, insieme all’espressione serena e assorta del volto girato verso gli esseri spirituali ne trasmettono un’immagine di grande genuinità e naturalezza.
La conversazione tra il “Doctor Angelicus” e gli angeli costituisce una nota piuttosto suggestiva dell’opera, perché segnala che per trattare di cose ineffabili non può bastare la semplice intelligenza umana, seppure brillante ed acuta, ma è richiesta l’illuminazione e la guida dello Spirito Santo del quale gli spiriti celesti sono i messaggeri. Solo un’anima ammaestrata dallo Spirito può elaborare con parole comprensibili di un’unica lingua componimenti in grado di celebrare il divino e generare unità e comunione. Infine il richiamo agli angeli, plasticamente raffigurati nella loro dinamicità mentre attorniano il santo, manifesta anche il modo mirabile col quale il frate domenicano trattò nel suo “Summa Theologiae” dell’influsso che essi hanno sulle creature umane, quali loro custodi, ispiratori e guide.
Il dipinto suscita ammirazione per la vivace e ricercata precisione con la quale i colori si armonizzano tra loro. In particolare, in primo piano e a destra l’attenzione è catturata dalle vesti dei due messaggeri celesti sulle quali, tra gli svolazzanti e cangianti panneggi, si intravede e risalta un bell’azzurro intenso e seducente tra le gambe del primo angelo e sulla spalla del suo vicino.
Sulla sinistra della raffigurazione, invece ,lo sguardo si ferma sul particolare blu dell’abito che copre l’angelo situato dietro lo scrittoio e principalmente sulla sfumatura di colore all’interno della sua manica. Palesemente significativa è l’immagine dell’essere spirituale che poggia la mano destra sulla pagina bianca, dove il frate ha riportato in parole ciò che il messaggero indica con la mano sinistra: “Ecce panis angelorum factus cibus viatorum..”
Le tonalità del bianco tra le ombreggiature delle ali degli angeli, sconosciute agli occhi umani e pertanto difficili da imitarsi, appaiono molto convincenti. Infine, nelle pieghe del saio di san Tommaso il bianco colpito dalla luce si mostra tanto luminoso e carico di colore da suscitare il desiderio di tastare la stoffa, per appurarne la consistenza morbida e vellutata.
Alcuni particolari della tela, dipinti accuratamente e a guisa di cammeo, risultano piacevolmente originali: il sole raggiato sul petto del santo, che indica la sapienza sacra; il cane con la fiaccola in bocca rappresentato sul lato dello scrittoio, simbolo dei frati predicatori; al suo fianco il cuore rosso con cintura bianca, che richiama lo stemma degli agostiniani, promotori della festa del Corpus Domini; il piccolo calamaio nero posto sullo scrittoio accanto ai tomi; il castello arroccato su uno sperone roccioso e sfumato in lontananza alle spalle del santo, che rappresenta Orvieto, dove risiedevano sia il Papa che il teologo aquinate (ma nulla osta a che l’immaginazione ci trasporti alla dimora di Roccasecca dei conti D’Aquino o alla fortezza calabrese di Belcastro che gli contende i natali di Tommaso).
Sullo sfondo della tela, tra cumuli striati di nubi grige, risaltano sprazzi rasserenanti di cielo azzurro, luminosi e tersi come lo erano i pensieri speculativi e assorbiti in Dio del “domenicano silenzioso”.
Esaminando il piano superiore dell’opera si resta incantati dal tripudio di paffuti angioletti adoranti che circondano il calice e la candida Ostia mentre la creatura celeste dal volto dolcissimo dipinta sulla sinistra fa oscillare un turibolo, dal quale fuoriesce una densa nube di fragranza profumata che si spande nel cielo. Al suo fianco è ritratto un delizioso e sorprendente angioletto, che l’accompagna reggendo tra le mani una piccola navicella contenente i grani di incenso.
Conclusa l’osservazione del quadro e tornando a considerare la solennità del Santissimo Sacramento, si può ricordare che essa ebbe origine nel 1208 in Belgio dove, in seguito alla visione mistica della beata Giuliana di Cornillon, priora di un monastero presso Liegi, fu introdotta la festa diocesana del Corpus Domini per celebrare la reale presenza di Cristo nell’ Eucaristia.
Successivamente, in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena dove alcune gocce di sangue uscite dall’Ostia consacrata macchiarono il corporale, papa Urbano IV estese la festività a tutta la Chiesa con la bolla Transiturus de hoc mundo dell’Agosto 1264. Per tale scopo il pontefice incaricò il teologo domenicano Tommaso d’Aquino a comporre l’Ufficio della solennità.
L’inno principale dell’Ufficio è il “Pange Lingua”, che si canta sia il Giovedì santo, quando il Santissimo Sacramento viene portato in processione all’altare della reposizione, sia nel giorno del Corpus Domini; ciò poiché Cristo offertosi nell’ultima cena del Giovedì santo e il Sacramento Eucaristico sono la medesima cosa, l’identico mistero, l’alfa e l’omega per tutti i credenti.
Le parole di papa Benedetto XVI spiegano molto bene quest’ultimo concetto: “Gesu’ nel Sacramento Eucaristico continua ad amarci fino alla fine, fino al dono del suo corpo e del suo sangue…Egli si fa cibo per l’uomo affamato di verità e libertà” (Sacramentum Caritatis).
“PANGE LINGUA
Gloriosi Corporis mystèrium
Sanguinisque pretiòsi,
quem in mundi pretium
fructus ventris generosi
Rex effudit gentium…
CANTA O MIA LINGUA
Il mistero del Corpo Glorioso
e del Sangue Prezioso
che il Re delle Nazioni,
frutto benedetto di un grembo generoso
sparse per il riscatto del mondo..
a cura di M.S.Spiniello