“Arrigoni e il delitto in redazione”, di Dario Crapanzano

Nell’anno 1957, da poco concluso, gli affari erano andati a gonfie vele per la Leonardo Bruni & C., la casa editrice fondata un decennio prima da colui che le aveva dato il suo stesso nome.

Leonardo Bruni, nato a Milano nel 1912, dopo aver frequentato il liceo classico, si era laureato in Giurisprudenza all’Università Statale. Attratto poi dal mondo dell’editoria, vi era entrato iniziando la sua carriera come impiegato nell’Ufficio Vendite di un importante operatore del settore. E per fortuna quella carriera non si era interrotta a causa della guerra perché il giovanotto, a suo tempo, era stato esentato dal servizio militare in quanto “primo nipote maschio di nonna vedova senza figli”, come prevedeva una singolare norma di legge in seguito abolita.

Al termine del conflitto, l’ormai più che trentenne Bruni, forte dell’esperienza acquisita, aveva deciso di “mettersi in proprio”, dando vita alla sua impresa editoriale, con sede in un piccolo appartamento di via Ramazzini, a Porta Venezia, vicinissimo a piazzale Lavater.

Dopo una partenza difficile, in breve tempo la nuova realtà si era imposta nel panorama editoriale milanese, grazie soprattutto alle oculate scelte del titolare. Il quale aveva sapientemente miscelato la sua produzione accostando agli impor- tanti romanzi della collana “Opere immortali” – dedicata ai capolavori europei della letteratura ottocentesca e comprendente autori come Stendhal, Tolstoj e Dostoevskij – le collane “Il teatro nei secoli” – che includeva drammi e commedie partendo dai più famosi autori greci e latini per arrivare a Shakespeare, Machiavelli, Molière, Goldoni e Ibsen – e “Opere liriche”, che in pratica consisteva nella pubblicazione dei libretti dei più noti melodrammi italiani e stranieri. In seguito, per raggiungere i ceti più popolari il Bruni aveva pensato, retribuendo di tasca propria degli scrittori, di creare due collane dedicate al mondo dello spettacolo e dello sport, “Divi e dive del cinema” e “I grandi dello sport mondiale”, entrambe ispirate a vita e opere di noti personaggi delle rispettive categorie. Un notevole successo avevano ottenuto anche i libri per bambini e ragazzi della collana “L’infanzia che legge”, imperniati su capolavori come le Fiabe dei fratelli Grimm e Le mille e una notte e affiancati da novità assolute di autori italiani viventi, l’ultimo dei quali, il professor Danilo Di Domenici, aveva conquistato migliaia di giovani lettori con romanzi ambientati nell’antica Roma, protagonista un valoroso centurione dell’e- poca repubblicana.

Con il passare degli anni, ovviamente, la struttura operativa della casa editrice si era arricchita, rendendo necessario un trasferimento della sede, che si spostò in un appartamento più ampio dello stesso stabile di via Ramazzini. Ora fra i collaboratori c’era anche un responsabile commerciale, alla guida di una squadra di venditori che battevano a tappeto le librerie di tutta Italia, mentre un esperto tecnico dirigeva l’Ufficio Produzione. Il cuore dell’azienda, la redazione, poteva contare ormai su cinque persone, fra le quali spiccava un giovane poco più che trentenne, il redattore capo Alberto Masserini.

Nato a Monza in una famiglia della piccola borghesia, il Masserini, dopo il liceo classico, aveva frequentato la facoltà di Lettere all’Università Statale di Milano, trovando anche il modo di integrare le sue modeste risorse finanziarie improvvisandosi correttore di bozze esterno per la Leonardo Bruni & C.

La sua collaborazione era stata così apprezzata da indurre il Bruni a offrirgli un posto di lavoro, dopo che il giovane, nel 1952, aveva ottenuto l’agognata laurea con il voto di 110 e lode. All’interno della casa editrice il Masserini aveva confermato le sue qualità professionali non solo nelle vesti di redattore editoriale – oggi si direbbe editor –, ma anche in quelle di organizzatore, tant’è vero che gli era stata affidata la gestione dei principali collaboratori esterni: correttori di bozze, illustratori e traduttori. Il colpo da maestro, però, l’aveva messo a segno scoprendo un romanzo che avrebbe fatto fare un decisivo balzo in avanti alla Leonardo Bruni & C. Si trattava di un libro scritto da un semisconosciuto studioso di storia, Alessandro Vincenzi, che l’aveva proposto con l’improbabile titolo d’ispirazione dumasiana Cinque anni dopo. Il Masserini, terminata la prima lettura, si era reso conto di avere fra le mani un testo potenzialmente in grado di ottenere un grande successo: una narrazione nella quale si immaginava che gli sconfitti della Seconda guerra mondiale fossero stati invece i vincitori, con tutte le inevitabili conseguenze, in un’Italia dominata pertanto dai nazifascisti.

Alla fantasiosa storia, non solo interessante in sé ma anche ben scritta, in un italiano scorrevole e avvincente, mancava ancora, secondo il Masserini, un titolo intrigante, che facesse esplicito riferimento ai suoi contenuti. Il giovane, dopo vari tentativi, ebbe un colpo di genio e inventò il titolo E se avessimo vinto la guerra?, che fu approvato entusiasticamente dal Bruni. Così il romanzo venne lanciato sul mercato, registrando fin dagli esordi, seppure senza sostegni pubblicitari, un clamoroso risultato di vendite, che proiettò la casa editrice in una nuova dimensione, sia dal punto di vista economico sia da quello del prestigio, dando inizio nel contempo a un’innovativa linea editoriale dedicata alla storia moderna. Di conseguenza, colui che era stato l’abile creatore del fenomeno fu immediatamente premiato con la nomina a redattore capo.

Grazie alla sua migliorata situazione economica, Alberto Masserini da poco più di due anni aveva lasciato l’abitazione di famiglia a Monza e si era trasferito a Milano, dove viveva in affitto in un piccolo appartamento al primo piano di uno stabile in via Settala, a qualche centinaio di metri dalla sede della casa editrice.

In una fredda notte invernale, per la precisione quella di venerdì 31 gennaio 1958, il giovane era seduto alla scrivania nel suo soggiorno, ma non stava né leggendo né scrivendo: sembrava dormire con la testa appoggiata sul ripiano di fronte a lui, ma in realtà era morto, come provava la sua gola squarciata e invasa dal sangue rappreso, che aveva imbrattato anche la camicia.

Al commissariato milanese di Porta Venezia l’unica grossa novità degli ultimi cinque anni riguardava lo scorbutico vicecommissario Mastrantonio che, raggiunta l’età della pensione, aveva cessato il servizio riciclandosi come investigatore privato. Purtroppo per lui, però, le entrate della nuova attività a malapena riuscivano a coprire le spese. L’avellinese Alfredo Giovine, invece, era divenuto finalmente l’unico vicecommissario del Porta Venezia. Alla testa della squadra c’era ancora lo storico commissario capo Mario Arrigoni, ormai vicino alla sessantina, sempre corpulento e amante della buona tavola, del caffè, del marsala e dei sigari. Mentre il suo pupillo, il ventiseienne Ciro Di Pasquale, dopo aver seguito e superato brillantemente un corso di specializzazione ad hoc, era stato nominato ispettore dal questore Respighi. Completava la struttura operativa un gruppo di agenti non più alle prime armi, essendo nel frattempo cresciuto in capacità ed esperienza; primo fra tutti il siciliano Egidio Schiaccitano, quasi un veterano nonostante la giovane età, dato che era in forza al Porta Venezia da circa otto anni.

In quella fredda mattina di inizio febbraio il riscaldamento al commissariato era sparato al massimo. Arrigoni aveva appena finito di sorbire il secondo caffè della giornata e stava accendendosi un toscano quando Di Pasquale fece capolino nel suo ufficio, annunciandogli che era appena arrivata una chiamata dalla portinaia di uno stabile di via Settala. «Commissario, ha telefonato la signora Antonia Voltini per informarci che in un appartamento al primo piano del suo caseggiato giace il corpo senza vita di un giovane uomo, tale Alberto Masserini, dipendente della casa editrice Leonardo Bruni & C. A quanto pare, la causa della morte è una vistosa ferita al collo, definita dalla portinaia “un tremendo sbrego”. In loco è già presente il medico curante del defunto, avvisato dalla stessa Voltini.»

«Non ha aggiunto altro la signora?» domandò Arrigoni.

«Per esempio come e perché ha scoperto il cadavere?»

«È riuscita a malapena a darmi le notizie che le ho riferito, con più singhiozzi che parole

«Ho capito, non ci resta che mettere i cappotti e partire per via Settala; a piedi ci vorranno poco più di una decina di minuti. Avvisi anche l’ufficio del medico legale e la Scientifica chiedendo loro di recarsi immediatamente sul posto. Poi domandi a Schiaccitano di trovare l’indirizzo della casa editrice e di dirigersi subito là. Deve assolutamente impedire a chiunque di avvicinarsi alla postazione di lavoro di questo Masserini: nessuno deve toccare o spostare niente.»

«Lo faccio immediatamente» rispose il giovane napoletano.

Nel giro di pochi minuti l’ispettore tornò da Arrigoni, che gli chiese: «C’è Giovine?».

«No, questa mattina è fuori, commissario.»

«Va bene, allora ci andiamo noi due in via Settala, lo informeremo a ispezione fatta. E dopo il sopralluogo magari facciamo anche un salto negli uffici di questa Leonardo Bruni. Forza Di Pasquale, muoviamoci!»

Procedendo di buon passo i due investigatori raggiunsero in meno di un quarto d’ora lo stabile di via Settala dove era avvenuto il delitto, un edificio senza pretese, non lontano dall’incrocio con viale Vittorio Veneto. Appena varcato il portone, si imbatterono in una donna sulla cinquantina che passeggiava nervosamente nell’androne. Nonostante l’abbigliamento – un decoroso abito grigio sotto un cappotto dello stesso colore e scarpe lucidissime con addirittura un accenno di tacco – non corrispondesse a quello tipico della categoria, Arrigoni dedusse dal suo atteggiamento che si trattava della custode. La conferma giunse dalla diretta interessata che, senza esitare, si rivolse ai nuovi arrivati esprimendosi in un buon italiano, seppure con un marcato accento veneto.

«Siete quelli della polizia? Sono ancora sconvolta… Qui non si sono mai verificati fatti del genere… Al massimo qualche scenata fra marito e moglie per problemi di corna, vere o presunte che fossero. Ma non è stato mai ammazzato nessuno, ve lo posso garantire. I miei inquilini sono persone perbene: operai, artigiani, qualche impiegato… gente che la- vora e non ha il tempo di litigare, a parte per quello che le ho detto prima» concluse con un sorrisetto allusivo, già dimentica del cadavere che lei stessa aveva scoperto.

Arrigoni, travolto dal fiume di parole che la portinaia, senza nemmeno esser sollecitata da una domanda, gli aveva riversato addosso, se ne rallegrò perché una così spiccata tendenza alla chiacchiera era la miglior premessa per ottenere informazioni da una donna che non sembrava per nulla un tipo riservato. Dopo aver esibito il tesserino ed essersi presentato, preferì rinviare il colloquio con la loquace custode al termine della visita nell’appartamento del defunto, ma le anticipò che avrebbe desiderato scambiare quattro parole con lei, che subito si dichiarò disponibile: «Signor commissario, quando vuole. Io non vengo su con voi perché ho già visto anche troppo…».

Accomiatatisi, i due investigatori salirono al primo piano ed entrarono nell’abitazione della vittima, dove incontrarono gli uomini della Scientifica che, solerti, erano già alla ricerca di impronte digitali e altri eventuali indizi. In un angolo della casa stazionava un signore alto e allampanato, la cui borsa, ti- pica del mestiere, rivelava la sua professione di medico.

L’alloggio consisteva in due stanze – un ampio soggiorno e una camera da letto –, più il cucinotto e il bagno. Il Masserini, per quel che si poteva intuire, sembrava un bel giovane, biondo e di alta statura. Era ancora seduto davanti alla scrivania in sala e il suo stato corrispondeva alla descrizione, seppur sommaria, della Voltini: la gola presentava un grande squarcio intriso di sangue rappreso, che non aveva risparmiato la camicia.

«Commissario, mi pare che non ci sia molto da chiedere al medico; la causa della morte è fin troppo chiara» fu il primo commento di Di Pasquale.

«Ha ragione, ma gli ponga comunque le solite domande che si fanno in questi casi, mentre io mi guardo intorno, e poi lo lasci libero di andarsene.»

Osservando la postazione dove si trovava il cadavere, il commissario vide che la scrivania era perfettamente in ordine: matite ben temperate in un semplice contenitore di legno a forma cilindrica, penna stilografica appoggiata vicino ad alcuni fogli bianchi ancora inutilizzati, boccetta d’inchiostro, un dizionario italiano-francese e, infine, l’apparecchio telefonico. Non c’erano però né un paio di forbici né oggetti taglienti nelle vicinanze… “Dunque manca la possibile arma del delitto” pensò Arrigoni, ipotizzando che se la fosse portata via l’assassino.

In un angolo del tavolo c’erano un portafogli e una piccola rubrica telefonica, ma nessuna agenda, notò il commissario. “Strano,” rifletté “non ho idea di che cosa facesse questo ragazzo nella casa editrice ma, per quel poco che ne so, nel suo mestiere si hanno spesso appuntamenti, e da qual- che parte doveva pur segnarli, quindi un’agenda gli era senz’altro necessaria; probabilmente la troveremo sulla sua scrivania nella sede di lavoro. Per adesso mi prendo la rubrica, con il permesso della Scientifica.”

Vagabondando per l’appartamento, Arrigoni non rilevò nulla di particolare; era la tipica casa da scapolo, anche se abbastanza in ordine: niente calze, camicie o mutande abbandonate qua e là e ancora da lavare, né piatti sporchi nell’acquaio.

Dopo quella prima sommaria ricognizione, il capo del Porta Venezia fu raggiunto da Di Pasquale, che lo aggiornò sulla conversazione con il medico.

«Una volta confermato che la morte è dovuta a un colpo inflitto con un non meglio identificato oggetto tagliente, alla mia richiesta di conoscere l’ora del decesso, il dottore non si è sbilanciato.»

«Poco collaborativo, dunque, ma era prevedibile, non ha voluto esporsi con dichiarazioni impegnative. Adesso vorrei fare qualche domanda alla Scientifica» disse Arrigoni, e si avvicinò al capo della delegazione, Romeo Entrante, che aveva incontrato in altre indagini. «Signor Entrante, mi rendo conto che avete iniziato da poco il vostro lavoro, ma ha già qualcosa da dirmi?»

«Commissario, non molto in verità, però la scoperta più interessante è che non vi sono segni di scardinamento sulla porta d’ingresso, che è stata aperta con una chiave oppure dall’interno dell’appartamento. Aggiungo che non abbiamo trovato neanche l’ombra di un’impronta sulla scrivania e nei dintorni. Evidentemente chi ha commesso il delitto si è impegnato coscienziosamente a cancellarle. Detto che non abbiamo ancora controllato le altre camere, le uniche impronte che abbiamo rilevato, peraltro abbastanza confuse, sono sulla porta d’ingresso e sembrano appartenere sia al defunto… sia a qualcuno di non meglio identificato. Altro dettaglio rinvenuto: un po’ di cenere, probabilmente di sigaretta, nel posacenere, ma nessun mozzicone in vista. Abbiamo infine rilevato tracce di sangue nel lavandino del bagno, dove forse l’assassino si è lavato le mani dopo aver compiuto l’opera, ma non è che ci possano servire un gran che, perché anche lì non c’erano impronte digitali visibili.»

«Questa meticolosa eliminazione delle tracce, assieme all’assenza di scasso, mi suggerisce già una prima constatazione, e cioè che la vittima conosceva il suo futuro carnefice, il quale è entrato tranquillamente in casa sua» commentò fra sé e sé Arrigoni «e ha pensato bene di non lasciare indizi che potessero aiutare a identificarlo. Mi scusi la digressione, signor Entrante, le faccio un’altra domanda, anche se forse è prematura allo stato attuale delle indagini: data la sua esperienza, che cosa le suggerisce questa scena del crimine?»

«Commissario, una prima conclusione mi sento di poterla trarre: premesso che non siamo in grado di dire con certezza se manca qualcosa, poiché ignoriamo tutto quello che c’era in casa prima della visita dell’assassino, alcune osservazioni tenderebbero a farmi escludere una rapina. Per prima cosa non abbiamo rilevato il tipico disordine che caratterizza un’affannosa ricerca di refurtiva, inoltre il portafogli della vittima contiene tuttora una discreta somma di danaro in contanti, e infine, come può vedere, il defunto porta al polso un orologio d’oro che di certo un ladro non si sarebbe lasciato sfuggire. «Ha ragione, possiamo lasciar perdere l’ipotesi della rapina; il movente dell’omicidio va cercato da qualche altra parte» fu la sintetica conclusione del commissario.

«Comunque, non abbiamo finito: passeremo al setaccio tutto l’appartamento e vediamo se salta fuori ancora qual- cosa» disse l’uomo della Scientifica, acconsentendo poi alla richiesta di Arrigoni di prendere possesso della rubrica tele- fonica del Masserini.

Nel frattempo, mentre i due parlavano, era entrato il responsabile dell’ufficio di medicina legale, il dottor Mariotto, coetaneo e vecchia conoscenza del commissario, assieme a un suo assistente.

«Ci incontriamo sempre e soltanto in circostanze del genere, caro Arrigoni. Sarebbe ora che ci vedessimo in un ambiente un po’ più allegro, magari di fronte a un aperitivo, in- vece di stare sempre in mezzo ai cadaveri» esordì con una delle sue tipiche frasi dissacranti il Mariotto.

«Se risolvo in quattro e quattr’otto il caso, le prometto che non mi limiterò a offrirle un aperitivo ma, mi voglio rovinare, addirittura una coppa di champagne» rispose il commissario.

«Prendo nota, e non pensi che me ne dimentichi, l’aspetterò al varco, prima che se ne vada in pensione.»

«In pensione ci andremo insieme, dottore, perché più o meno abbiamo la stessa età. Ora non voglio farle perdere altro tempo; cominci a dare un’occhiata al cadavere, e chissà che, grazie al suo acume e alla sua esperienza, non possa già dirmi qualcosa…»

«Sfotta, sfotta, commissario… ma non sono mica Mandrake il mago» rispose Mariotto, avvicinandosi contemporaneamente al cadavere, osservandolo e tastandolo poi in varie parti. «Ma visto che mi è simpatico e voglio aiutarla a combinare, una volta tanto, qualcosa di buono, le posso dire che, innanzitutto, la morte è stata causata probabilmente da un paio di forbici, vista la natura frastagliata del taglio sul collo; e in secondo luogo che il povero giovanotto, così a occhio, è stato fatto fuori fra le nove e mezzo o dieci e la mezzanotte. “Altro dirti non vo’…” Soddisfatto?»

«Grazie, dottore, e buon lavoro. Mi raccomando, aspetto presto sue nuove.»

«Mai contento il mio vecchio amico! Le aspetti, le aspetti, vedremo se e quando potrò dargliene.»

Salutato il medico legale, Arrigoni e Di Pasquale tornarono a pianterreno, dove furono accolti dalla portinaia, che li in- vitò in guardiola: «Mi aveva detto che voleva parlarmi, se- diamoci allora belli tranquilli in casa mia; vi farò un buon caffè, se lo gradite».

«Grazie, signora» accettò il commissario, che entrò con il collega nell’ambiente lindo e ordinatissimo in cui una stufa economica emanava un piacevole calore.

Mentre prendevano il caffè, seduti davanti a un tavolo ricoperto da una tovaglia bianca e immacolata, Arrigoni scambiò uno sguardo d’intesa con il giovane ispettore e partì con le domande. A dire il vero, avrebbe volentieri lasciato l’incombenza a Di Pasquale, ma aveva intuito che la donna preferiva dialogare con il funzionario di grado più alto.

«Signora, mi spiace farle ricordare il brutto momento che ha vissuto questa mattina, ma non posso farne a meno; purtroppo questo è il mio mestiere. Mi racconti, per cortesia, con la massima precisione possibile e in tutta calma, come e perché ha scoperto il cadavere del suo giovane inquilino.»

«Cadavere, che brutta parola! Ma d’altra parte è così, inutile girarci intorno» ribadì la donna, allargando le braccia in un gesto di rassegnazione. «Io da qui vedo tutti quelli che entrano ed escono; del resto non lo faccio per ficcare il naso nei fatti altrui, fa parte del mio lavoro, giusto?» E, dopo il cenno di assenso del commissario, continuò. «Venendo al dottor Masserini, tutte le mattine, cascasse il mondo, lui esce alle otto meno un quarto in punto. Ci si potrebbero regolare gli orologi quando lo si vede oltrepassare il portone» disse replicando, senza saperlo, una frase diffusa fra gli abitanti di Königsberg che, nel Settecento, consapevoli della precisione quasi maniacale del loro concittadino e filosofo Immanuel Kant, regolavano gli orologi al momento della sua uscita di casa per l’abituale passeggiata pomeridiana volta a raggiungere l’abitazione di un amico. «Questa mattina erano già trascorse da un po’ le otto e ancora non l’avevo visto, così mi sono preoccupata, sono salita al primo piano e ho suonato il campanello senza ottenere risposta. Allora ho pensato che era il caso di aprire la porta e dare un’occhiata. Io ho le chiavi dell’appartamento perché vado regolarmente, un paio di volte alla settimana, a fare le pulizie, lavare la biancheria e stirare le camicie del Masserini.»

«Ecco perché tutto era così in ordine, merito suo!» la gratificò Arrigoni con lo scopo di renderla ancora più disponibile.

«La ringrazio, commissario. Io cerco di fare bene il mio mestiere, non sono come certe disgraziate che guardano solo ai guadagni, ma lasciamo perdere… Come le dicevo, sono entrata a casa del dottor Masserini e l’ho trovato seduto con la testa poggiata sulla scrivania; però non era addormentato come sembrava, ma morto e stramorto con il collo e la camicia inzuppati di sangue. Madonna, che brutto spettacolo!» concluse.

Arrigoni le lasciò il tempo di riprendersi, poi, mantenendo un tono amichevole e per niente inquisitorio, proseguì: «Signora, se non ha niente in contrario vorrei farle ancora qualche domanda. Conto molto sulla testimonianza di una donna in gamba come lei».

«La ringrazio per la fiducia; chieda pure, anche se, mi capirà, non sono nelle condizioni migliori per sostenere una conversazione così impegnativa. Comunque farò del mio meglio.»

«Ne sono certo. Signora Voltini, lei non mi sembra il tipo che va a frugare nella vita degli altri, ma nella sua posizione si accorgerà per forza di quello che succede all’interno dello stabile, per non parlare delle confidenze che senz’altro le fanno inquilini e inquiline, sapendo di poter contare sulla sua discrezione» la blandì Arrigoni. «Tornando al motivo principale del nostro colloquio, mi parli un po’ di questo dottor Masserini, che tipo era, che cosa faceva…»

«Come avrà visto, era un bel giovane, alto e slanciato, con due grandi occhi azzurri e una folta capigliatura bionda. Per il resto, cosa vuole che le dica, all’apparenza sembrava una persona normale e perbene; nella casa editrice dove lavorava aveva fatto una discreta carriera, raggiungendo una posizione importante, non le so dire con precisione in che ruolo.»

«Questo è senz’altro molto interessante» commentò il commissario. «Ma il giovanotto aveva, come tutti noi, anche una vita privata, ed è di questo che vorrei mi parlasse. Per esempio, a un bel ragazzo come lui chissà quante fanciulle ronzavano intorno!»

«Lo può ben dire: sapesse quante signorine – e anche signore a dire la verità – del palazzo o del vicinato mi hanno chiesto di presentarglielo, ma io faccio la portinaia, mica la ruffiana!»

«L’ha visto forse in compagnia di qualcuna?» insistette Arrigoni.

«Come le ho detto, io non vado a caccia di notizie per il gusto del pettegolezzo, però qualcosa ovviamente ho notato, anche se il giovanotto era molto riservato. Una donna che saliva dal dottor Masserini mi è capitato di vederla, almeno un paio di volte. Arrivava dopo la chiusura del portone, alle otto di sera, ma siccome dopo mangiato resto in guardiola ad ascoltare la radio, se sento qualche rumore mi viene istintivo dare un’occhiata per controllare cosa succede.»

«Che tipo era questa signora?»

«Di sicuro non una ragazzina: di media statura, elegante e poi, non so… un po’ misteriosa.»

«Perché misteriosa?» la incalzò il commissario.

«Perché, a parte il fatto che aveva sempre un foulard in testa e un paio di occhiali da sole, passava veloce come una lepre davanti alla portineria dopo avermi detto da chi andava, guardando fissa dall’altra parte e imboccando subito le scale… Neanche con due paia di occhiali da vista sarei riuscita a vederla in viso.»

«Ho capito, misteriosa era e misteriosa rimane. A parte questa signora, ricorda altre persone che frequentavano il Masserini?»

La portiera rifletté a lungo, tormentandosi una ciocca di capelli. «Pensandoci bene,» riprese poi «ci sarebbe anche un bell’uomo sulla sessantina, alto, molto elegante, con i capelli brizzolati e con un sigaro sempre in bocca. L’ho visto diverse volte in compagnia del povero ragazzo, sia di giorno che di sera.»

«Ha il mio stesso vizio questo signore,» commentò il commissario mostrando alla donna una confezione di toscani «anche se io sono senza dubbio meno bello.»

«Non si butti giù, commissario, anche lei non è così male! Glielo dice una che se ne intende, pur non essendomi mai sposata… o forse proprio per questo. A proposito, se vuole fu- mare, faccia pure, vorrà dire che dopo darò aria alla stanza» concesse gentilmente la custode.

«Nient’altro sul bel signore brizzolato?» insistette il commissario, che assecondò l’invito accendendo un toscano.

«Ha un cognome straniero, ma non me lo ricordo, e mi pare faccia l’avvocato.» La portinaia si interruppe un attimo e poi proseguì con aria da cospiratrice: «Potrei anche riferirle di una voce sul suo conto, ma non so se è il caso…».

«È il caso, è il caso» la incitò sorridendo Arrigoni. «Mi dica tutto quello di cui è a conoscenza, anche se si tratta di pettegolezzi; valuteremo noi se tenerne conto. Parli liberamente, le assicuro che nessuno verrà a sapere che è stata lei a farci delle confidenze.»

«Bene, allora stia bene attento, commissario. Si dice, ma forse sono solo delle malignità, che questo avvocato sia un tipo un po’ particolare, con gusti strani… Insomma, alcuni inquilini piuttosto maliziosi hanno immaginato, da certi suoi atteggiamenti, che il distinto signore sia uno dell’altra sponda, per intenderci, che gli piacciano gli uomini. E molti, malignamente, si sono domandati cosa diavolo ci facesse “un vecchio invertito”, uso le loro parole, con un bel ragazzo come il Masserini. Ecco, ora ve l’ho detto, ma non andate a raccontare in giro che lo avete saputo da me.»

«Glielo garantisco, signora, rimane tutto fra lei e noi» la rassicurò il commissario, anche se non aveva la certezza di poter mantenere la promessa. «E la ringrazio di averci dato così tante informazioni» .

Dopo un lungo silenzio, passato a prendere appunti, improvvisamente intervenne Di Pasquale: «Signora, vorrei farle anch’io una domanda, se me lo permette».

«Questo bel giovanotto può farmela, dottore? Rispondo soltanto se lei è d’accordo» precisò la donna, che evidente- mente aveva una spiccata predilezione per Arrigoni, il quale rispose: «Mi dia retta, Di Pasquale non è un agente qualsiasi, ha il grado di ispettore ed è un investigatore coi fiocchi, anche più bravo di me, che ormai sento un po’ il peso degli anni. Si fidi…».

«Ma non dica sciocchezze, commissario, mi scusi la confidenza. E poi non è così vecchio! Non capisco perché continua a fare il modesto, ma contento lei… Mi chieda pure, giovanotto.»

«Dunque, a parte l’amicizia con l’avvocato e la frequentazione della signora sconosciuta, le viene in mente altro sul Masserini? Abitudini, interessi, passatempi di ogni genere…»

Seguì un momento di silenzio, durante il quale la Voltini prese tempo, riponendo le tazzine del caffè nel lavandino, dopo di che tornò a parlare: «Mi avete tirato fuori di tutto con le pinze, cari i miei poliziotti, ma un’ultima cosa da dirvi ce l’avrei. Bene, il povero giovane aveva il vizio di scommettere sulle corse dei cavalli. E non parlo a vanvera, lo so perché ogni tanto, la domenica, andava all’Ippodromo di San Siro, ma non da solo. Veniva qui spesso uno che prende scommesse: è un mestiere che si dice con un nome straniero…».

«Intende forse bookmaker

«Ecco, proprio così. Si chiama Muzzoletti, me lo ha detto il signor Gerolamo, padrone del bar tabacchi qui sotto, dove i due si incontravano e si scambiavano soldi e foglietti. Il tabaccaio mi ha spiegato che era così che il buc… insomma, quel che è, prendeva nota delle scommesse e riceveva i soldi che gli spettavano. Ma non tutto filava liscio fra i due, per- ché più di una volta li ho sentiti litigare. Il Muzzoletti chiedeva al giovane di pagare i suoi debiti. “Se no per te saranno guai” l’ho sentito persino dire con le mie orecchie.»

«Grazie mille, signora, credo che dopo questa ultima, preziosa notizia possiamo lasciarla in pace» concluse Di Pasquale.

«Mi associo ai ringraziamenti dell’ispettore» si inserì Arrigoni. «Se non le dispiace, può essere che torneremo a fare una visita all’appartamento dopo che avranno finito i loro accertamenti la Scientifica e il medico legale. Non ne sono sicuro al cento per cento.»

«Tornate quando volete, non capita tutti i giorni di incontrare un così bel ragazzo e un uomo affascinante come lei, commissario» fu la frase, gratificante per entrambi, con cui la portinaia mise fine alla conversazione.

Lasciata la simpatica e ciarliera custode, i due investigatori fecero una breve sosta al bar tabacchi, dove si intrattennero con il titolare, Gerolamo Annoni, un omaccione grande e grosso, ancora in maniche di camicia nonostante una temperatura vicina allo zero.

Il commissario partì con la solita constatazione: «Signor Annoni, immagino che lei conosca bene tutti gli abitanti della casa, dunque anche il signor Masserini che, come saprà, è rimasto vittima di un omicidio».

«Quel povero ragazzo! Chi se lo sarebbe mai immaginato che avrebbe fatto una fine così orrenda… Sono salito anch’io a dare un’occhiata: che brutto spettacolo, roba da matti! Era un mio cliente affezionato; tutte le mattine, prima di andare al lavoro, veniva qui a prendere un cappuccino e una brioche, e ogni tanto passava anche nel tardo pomeriggio per un aperitivo.»

«Vorrei avere da lei una conferma su un fatto che lo riguarda» proseguì Arrigoni. «La portinaia ci ha detto che il giovanotto puntava sulle corse dei cavalli, e pare che si in- contrasse nel suo locale con un bookmaker al quale affidava le sue giocate. Sempre secondo la signora Voltini, fra i due scoppiavano spesso degli alterchi, per non dire di peggio, perché il signore in questione lamentava il mancato paga- mento di quanto gli era dovuto. È vero?»

«Verissimo, e le dirò di più: a volte venivano persino alle mani, e il Muzzoletti – così si chiama l’allibratore – faceva minacce anche più pesanti… Proprio un tipo poco raccomandabile! Se volete contattarlo, ho il numero di telefono di quel tizio, ve lo scrivo su un foglietto di carta.»

Il commissario intascò il prezioso appunto e continuò:

«Grazie mille, signor Gerolamo, ancora una domanda e poi la lasciamo lavorare. Per caso ha visto nel suo locale il Masserini in compagnia di qualcun altro: donne, uomini, non so…».

«Donne non mi pare, per quel che mi ricordo, però a volte era assieme a un signore anziano molto distinto; mi pare fosse un avvocato, un tipo un po’ stravagante, tanto che i miei clienti, gente semplice ma pettegola, lo giudicavano un po’ effeminato – non voglio dire la parola che usavano loro – e facevano insinuazioni commentando il fatto che i due sta- vano spesso insieme. Mah, al mondo non si finisce mai di scoprire cose strane!»

Questa ultima, filosofica considerazione chiuse il colloquio.

Il racconto continua…

“Arrigoni e il delitto in redazione”,

di Dario Crapanzano

  • Editore: SEM
    Anno edizione: 2020
    In commercio dal: 12 novembre 2020
    Pagine: 176 p., Rilegato
    Prezzo: 15,00 euro
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Milano, 1958. Leonardo Bruni dirige l’omonima e fortunata casa editrice con sede in Porta Venezia. Tra i suoi collaboratori spicca Alberto Masserini, correttore di bozze poi promosso a redattore capo dopo aver scovato e fatto pubblicare un romanzo di successo.
La sua fortuna però si esaurisce presto, perché viene trovato con la gola squarciata nel suo appartamento in via Settala.
L’assassinio del giovane e brillante redattore capo porta Arrigoni a indagare in un ambiente per lui del tutto nuovo, quello dell’editoria. Il caso si presenta piuttosto complicato: l’omicidio è avvenuto a casa della vittima, ma non c’è traccia di forzature alla porta d’ingresso né tanto meno impronte digitali: l’assassino ha agito con freddezza e lucidità.
L’indagine mette il commissario in contatto con i vari personaggi che hanno a che fare con la casa editrice: l’editore, la moglie e i componenti dei diversi reparti, più il classico ricorso alla portinaia della vittima. Ma non ne esce un gran che, se non che il defunto aveva una forte passione per le donne e il gioco d’azzardo. L’inchiesta si allarga così coinvolgendo anche conoscenze extra lavorative del Masserini…
La soluzione del caso alla fine arriverà nel modo più inaspettato e imprevedibile, con la scoperta di un assassino assolutamente insospettabile.

Dario Crapanzano, nato a Milano, nel 1970 ha pubblicato la guida sentimentale A Milano con la ragazza…e no. Ha esordito come romanziere nel 2011 con Il giallo di via Tadino, creando il personaggio del commissario Mario Arrigoni, protagonista di numerose inchieste tra le quali Arrigoni e l’omicidio nel bosco (SEM, 2018). Sempre con SEM ha pubblicato anche le prime indagini di Margherita Grande, La squillo e il delitto di Lambrate e Una contessa di Chinatown.

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