Il giorno 17 gennaio, in molti luoghi, specialmente nei paesi di campagna o montagna, si accendono i tradizionali falò sui sagrati delle chiese, sulle piazze o sulle alture prospicienti le case dei borghi per festeggiare sant’Antonio Abate, uno dei Padri del deserto
L’occasione si presenta golosa per una gita fuori porta e per godere un evento la cui consuetudine, che si perde nella notte dei tempi, vede molte comunità ritrovarsi per festeggiare gioiosamente l’eremita della Tebaide intorno alla classica pira che arde scoppiettando, materializzazione concreta del fuoco che veniva dipinto nelle tele riguardanti il santo. La festa può anche costituire la molla per recarsi ad ammirare un vero gioiello rappresentato dalla bella pala d’altare situata nella terza cappella di destra del santuario della Madonna della neve di Auro, piccola frazione di Casto in provincia di Brescia.
Si tratta di un quadro raffigurante sant’Antonio abate, dipinto nel 1534 da Alessandro Bonvicino detto Moretto da Brescia. L’artista nacque probabilmente a Brescia intorno al 1498 da una famiglia di pittori provenienti da Ardesio bergamasco. Secondo G. Gozzoli “il cognome d’origine era quello di Buonvicino, ma pare che il capofamiglia che trasportò le sue tende a Brescia -forse per il color bruno della carnagione- abbia accettato il soprannome di Moretto e l’abbia aggiunto al cognome” (Buonvicino detto il Moretto, Brescia 1898, pag.14). Alessandro Bonvicino è considerato uno dei tre grandi maestri del primo Rinascimento bresciano, insieme al Romanino e al Savoldo.
Nell’opera conservata nel santuario di Auro il santo anacoreta è raffigurato in maniera piuttosto insolita e lontana dagli usuali modelli iconografici medievali. Infatti la sua figura, intronizzata e posta centralmente al dipinto, si impone con una manifesta autorevolezza e maestosità mediante la nobiltà della posa e il senso di forza e solidità che esprime attraverso il gesto ampio delle braccia spalancate. La mano destra dell’abate regge e domina un fuoco vivace e ardente mentre la mano sinistra stringe un bastone pastorale che, con la bianca mitra appoggiata sul gradino alle sue spalle, simboleggia la dignità, l’autorità e la santità della sua carica. Il volto è severo e quasi minaccioso, lo sguardo intenso e risoluto.
La sua figura è avvolta in ricchi paramenti costituiti da una veste arancione -colore che simboleggia la rivelazione dell’amore di Dio- e da un ampio mantello drappeggiato, il cui interno di un bel verde cangiante si combina cromaticamente in maniera armoniosa ed elegante col rosso/arancio del suo esterno. I colori dello sfondo e dell’ambiente circostante sono limpidi, chiari e rasserenanti. Pertanto nella raffigurazione del dipinto tutto contrasta con l’aspetto consunto, il volto scarno e mite, il povero saio liso e i colori cupi e desolati con i quali abitualmente si rappresentava il padre del deserto. Il motivo è chiaramente costituito dalla necessità di offrire alla gente semplice, legata agli ambienti agrari e rurali, una risposta che corrispondesse alle loro aspettative: il santo doveva concorrere a trasmettere alla povera gente del tempo, costantemente ai margini della sopravvivenza, un senso di incoraggiamento e speranza, di forza e potenza che solo la poderosità di un taumaturgo risoluto ed energico poteva offrire contro le forze del male che aggredivano uomini ed animali a causa delle ripetute carestie ed epidemie dell’epoca.
Tuttavia, nell’opera del Moretto da Brescia i simboli che rimandano al grande eremita sono quelli usuali: ai piedi dell’abate un nero maialino, dipinto in posa “addomesticata” e in netto contrasto col gradino color ghiaccio, rimanda al grasso col quale si otteneva l’unguento da spalmare sulle piaghe doloranti ed arrossate provocate dalla malattia; un campanello legato sul ricco ed elaborato pastorale ricorda quello col quale i monaci dell’ordine di sant’Antonio si annunciavano durante gli spostamenti per le questue; il fuoco nella mano destra simboleggia il “fuoco degli ardenti” o “fuoco di sant’Antonio”, una malattia per la guarigione della quale si invocava il santo. Il morbo, molto diffuso tra i poveri a causa della cattiva alimentazione, era per lo più causato dal consumo di segale infestata da un fungo tossico (ergot). Solo in tempi successivi l’espressione venne usata in riferimento al virus dell’herpes zoster.
Il fuoco di sant’Antonio poteva provocare cancrena e mutilazioni spesso letali e colpiva frequentemente sia uomini sia animali. La segale costituiva parte del nutrimento della povera gente, che ne faceva un pane generalmente senza sale e non lievitato; essa veniva usata anche per alimentare le poche bestie che le persone possedevano per il lavoro dei campi o per il trasporto. L’intossicazione alimentare, oltre a causare danni fisici, provocava anche sintomi neurologici e psichici come le convulsioni e le allucinazioni e per tale ragione, non conoscendone le cause, la malattia veniva imputata alle forze maligne o alla stregoneria.
Oggi il morbo è conosciuto col termine “ergotismo” ed è risaputo che la presenza di funghi tossici possono infestare anche altri cereali quali grano, avena, orzo, tuttavia, considerati i controlli che si effettuano sulle granaglie e sulle biade destinate al consumo umano e animale, le epidemie e i mali connessi ai patogeni delle graminacee sono piuttosto rari.
Nel Medioevo furono i canonici di sant’Antonio di Vienne, cittadina francese sul Rodano, a dedicarsi prevalentemente alla cura degli ammalati di fuoco di sant’Antonio o ergotismo. Come menzionato sopra, essi si sostenevano con le elemosine che raccoglievano girando per le vie e le contrade, annunciandosi col tipico campanello appeso alla cintura.
A Milano la chiesa dedicata a sant’Antonio, situata nell’omonima via tra l’Università Statale e il Duomo, costituisce una riedificazione dell’antico complesso eretto proprio dai monaci Antoniani di Vienne verso la fine del XIII secolo. La struttura comprendeva, oltre al convento, una cappella dedicata al santo patrono, una cucina con mensa, un dormitorio per gli ammalati e alcuni locali di servizio. Intorno ai vari edifici e particolarmente verso la depressione costituita dall’attuale Largo Richini pascolavano liberi e indisturbati i suini che i canonici allevavano presso le loro fondazioni ospedaliere e che si distinguevano dagli altri maiali per il caratteristico campanellino appeso all’orecchio. Tali animali non potevano essere catturati né uccisi dalla popolazione affamata e per questo motivo i Visconti, signori di Milano, dovettero emanare al riguardo un esplicito divieto, con eventuale relativa pena. Come conseguenza di ciò, consolidandosi nel tempo questa situazione, sant’Antonio fu riconosciuto protettore dei maiali e successivamente, per estensione, di tutti gli animali.
L’antico complesso di via sant’Antonio resistette fino alla metà del 1400, periodo nel quale Francesco Sforza commissionò ad Antonio Averlino, detto il Filarete, il progetto della Ca’ Granda, ordinando quindi di riunire in essa tutta l’attività medica cittadina.
A questo punto non resta che raggiungere il santuario di Auro per apprezzare da vicino l’opera di Moretto da Brescia e festeggiare dinanzi a un bel falò acceso la ricorrenza del santo protettore degli animali e taumaturgo. Falò, campanelli e maialini ancora oggi stanno a ricordare che la preghiera può ottenere miracoli, a volte risolvendo controversie e guarendo mali che le strategie o conoscenze umane non dissolvono. Se invece non fosse possibile la visita al santuario, si potrebbe comunque approfittare della tradizionale benedizione che nel giorno dedicato a sant’Antonio abate viene impartita alle persone e agli animali sul sagrato di molte chiese, per ottenere attraverso l’intercessione del grande anacoreta la protezione e la guarigione dai mali.
Maria Silvana Spiniello