Amare i classici è giusto? Certo che sì. La lettura di cose tipo l’Edipo Re di Sofocle dovrebbe essere non proprio obbligatoria per legge, ma altamente consigliata chiunque. (Il testo peraltro, seppur un po’ ostico, è piuttosto corto). Dai classici non si può prescindere. Certo, sarebbe opportuno conoscerli per davvero e non far finta di averli letti dopo aver vagamente dato un’occhiata alla trama su Internet. A che serve dire che Omero era un poeta immenso senza averlo letto né in italiano né in greco né in serbo-croato? Fare sfoggio della cultura che non si ha è inutile, così come asserire a vanvera che certi libri e autori sono noiosi. Ma va là.
Chissà perché, quando pensiamo ai classici (e nel pronunciare questa parola ci pare quasi di sentire un’eco pesante giungere dagli abissi del tempo per riempirci di ragnatele), che siano persi nella notte dei tempi o più vicini a noi, tendiamo a immaginarli come qualcosa di polveroso e soffocante per definizione. Come se chi li ha creati e pensati fosse nato già vecchio e barbogio, non avesse avuto un’infanzia, commesso errori madornali, preso fregature solenni, incassato sconfitte. A volte, nel chiamare i classici con questo nome, dimentichiamo che i loro autori sono stati vivi, giovani, sciocchi, sbadati, ingenui. E anche incompresi, ignorati, ghettizzati, il più delle volte perché erano troppo strambi, esageratamente innovativi. Non era raro che non piacessero ai più.
Sapete quei paragrafi che ci sono sui libri e sul web dedicati alla “fortuna” degli autori? Quelli (che di solito si saltano) in cui vengono raccontate le loro disgrazie e dove c’è la lista delle (chiamiamole così) incomprensioni a cui sono andati incontro quei poveracci sia da vivi sia dopo morti? Leggeteli e poi provate a immaginare queste creature intente a comporre le loro opere. Cosa credete, che fossero lì tutti concentrati nell’atto specifico di produrre proprio un classico? No, anche perché come facevano a sapere che ne sarebbe stato delle pagine che mettevano giù (sempre che fossero interessati al destino delle suddette pagine)? Erano dei mezzi balenghi che davano forma ai loro pensieri senza immaginare onori postumi, questo erano. E noi da un lato li consideriamo narcotici e dall’altro li mettiamo sull’altare, spesso solo per dimenticarceli lì, lasciandoli soli ancora una volta. D’altra parte è più semplice innalzare un’ara a ciò che ha attraversato il tempo piuttosto che cercare di investigare e interpretare la propria epoca. Ne deriva che anche rifugiarsi tra le loro braccia per non pensare al presente è tempo perso, anzi è un tradimento nei loro confronti. Sì, perché loro invece si sono presi eccome la briga di cercare di capire e di spiegare i tempi in cui hanno avuto la sorte di nascere.
I classici sono il fondamento, esistono perché tu ti faccia domande sulla vita e sulla morte, sull’etica e sulla metafisica. Chi li legge e li fa suoi (non chi li impara per usarli come mezzi per tirarsela sui social e per dire belle frasi in società) diventa un Edipo Re che si pone domande di cui forse sarebbe meglio non scoprire mai la risposta. Eppure bisogna farsele lo stesso.
Ungaretti e Virgilio se fossero qui cosa farebbero? Starebbero impalati a declamare i propri versi o cercherebbero di capire come si sta evolvendo la società?
Cercherebbero di prevedere il futuro o di riproporre il passato? Modificherebbero il loro stile (anche di vita) per renderlo più contemporaneo?
I classici sono qualcosa da conservare, ma non sono conservatori, anzi. Sono stati concepiti come qualcosa di nuovo, sono pensieri divergenti creati da menti divergenti che i tempi non li hanno percorsi, bensì precorsi. Basta scambiare tra loro una “e” e una “r” e si cambia il mondo, a volte in senso proprio e non solo figurato. Diventare classici vuol dire aver rischiato, aver tentato nuove strade ed essere addirittura riusciti nell’intento. I classici c’insegnano che scambiare quelle due lettere è possibile e a volte necessario. Insomma, sono roba per rivoluzionari.