La storia del neurologo Antonio Maglio – alias Flavio Insinna – inventore delle Paraolimpiadi nel 1960 e quella della soprano Florence Foster Jenkins, celebrano il valore catartico di crederci, nello sport come nella vita, nonostante tutto e tutti
Nell’Italia degli anni ’50 la disabilità, oltre a essere uno stigma sociale, veniva ‘curata’ con corsetti ingessati per il corpo e morfina a volontà per l’anima, condizione che condannava le persone a una fine prematura. Eppure in Inghilterra il neurologo ebreo tedesco Ludwig Guttmann stava sperimentando con successo nel suo Centro per le lesioni spinali di Stoke Mandeville quanto lo sport poteva essere mezzo di recupero di dignità, aumento dell’aspettativa di vita e fonte di successi agonistici per paraplegici e disabili.
Di questo racconta “A muso duro – Campioni di vita”, un film per la televisione, girato alla maniera classica senza virtuosismi, del 2022 diretto da Marco Pontecorvo (figlio del grande regista Gillo) disponibile su Raiplay che vede il ritorno alla fiction di Flavio Insinna alias Antonio Maglio, medico e dirigente dell’Inail che trasforma Villa Marina, ex clinica ostetrica davanti al mare di Ostia, nella nuova casa di chi oltre alla riabilitazione fisica attraverso le discipline sportive, ritrova una nuova speranza di riscatto da una condizione di una condanna permanente.


Ad affiancarlo in quello che diventa la sua missione di vita, dopo che la perdita di un figlio per la meningite gli aveva tolto il gusto alla sua professione, Paola Minaccioni nel ruolo di Tiziana, la caposala solidale, Claudia Vismara alias Stella, futura seconda moglie e Massimo Wertmüller nei panni del medico e amico Navarra. La sua caparbietà lo porta nel 1960 a organizzare un torneo internazionale con le infrastrutture delle Olimpiadi appena concluse al quale partecipano quattrocento atleti provenienti da ventitré nazioni in cui i portatori di handicap si sfidano nelle discipline di pallacanestro, scherma, nuoto, giavellotto, tiro con l’arco: sono le prime Paraolimpiadi della storia. Alla vigilia di quelle invernali di Milano-Cortina del 2026, giova appellarsi, senza entrare nelle polemiche che accompagnano sempre manifestazioni diventate mega-eventi commerciali, alla valenza sociale dello sport sancita ora anche nella Costituzione con la modifica dell’art. 33 che, dal 20 settembre dello scorso anno, prevede un nuovo comma: “La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme”. Promotore l’onorevole Mauro Berruto e forse a lui potrebbe andare il primo oro del prossimo medagliere olimpico.
Cercare di migliore e crederci, l’ottimismo di Florence
Ma chi l’ha detto che il talento è tutto? Di certo non lo credeva St. Clair Bayfield che asseconda e protegge la sua totale assenza in sua moglie, convinta di essere una stella del Bel canto nell’America fra le due guerre mondiali. Nata a 1868, a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, Narcissa Florence Foster Jenkins è una discreta pianista ma le sue velleità sono mortificate dalla famiglia che non crede in lei. Per questo fugge di casa e si sposa a 18 anni con il dottor Frank Thornton Jenkins, che però le passa infelicità e sifilide causa di degenerazione articolari e addio alla carriera sui tasti. Alla morte del padre eredita una fortuna e inizia a inseguire il suo sogno: prende lezioni, fa concerti e per trent’anni calca i palcoscenici di tutta America, finanzia artisti (tra cui Arturo Toscanini), foraggia associazioni musicali, ne fonda anche una, il Verdi Club, con il miraggio di eguagliare le soprano dell’epoca. Meryl Streep nel ruolo dell’eccentrica ereditiera e Hugh Grant in quello del suo secondo marito interpretano la sua storia in “Florence”, 2016, di Stefen Frears (su Prime Video, Apple TV+, CHILI). Premiato con il Bafta per miglior trucco e acconciatura (la vera Mrs. Foster indossava capi di sua ideazione) e con il Critics’ Choice Awards, vanta una prova strepitosa della doppiatrice italiana Maria Pia di Meo, che si destreggia tra gorgheggi e malinconie cui la protagonista è condannata dalla malattia e dal matrimonio in bianco. Ma il suo riscatto è l’amicizia con il pianista Cosmé McMoon (un bravo Simon Helberg che capisce il suo tormento), il sodalizio anticonvenzionale pieno di tenerezza con il marito manager e gli applausi, non ha importanza se sentiti o canzonatori, che il pubblico le tributa sul finire della sua esistenza nel concerto che vale una vita, quello del 25 ottobre 1944 alla Carnegie Hall di New York.