Partirò dal titolo, per parlarvi del libro che ho scelto questo mese. California. Si tratta di un saggio, ma davvero appassionante.
California. Non è un posto ma un sogno, o forse ancora meglio un mito. Ho una sorella, che vive in California, e tutte le volte che viene in Italia e le chiedono dove abita, alla sua risposta “in California” gli occhi dell’interlocutore italiano si accendono e le orecchie si alzano. Con un misto di invidia, di ammirazione, di curiosità. Una reazione che non ho mai visto di fronte a nessun altra città o Paese del mondo. Grazie a film, musica, bellezza, libertà, letteratura, moda e chissà cos’altro la California ha preso posto nel nostro immaginario. E che posto! Un posto dove tutti vorremmo andare, dove tutti almeno una volta abbiamo pensato di trasferirci, dove in molti abbiamo fatto un viaggio e magari anche più di uno.
Però che cosa sia la California davvero lo sanno solo quelli che ci vivono. Quelli che ci si sono trasferiti in cerca di lavoro, spazio e libertà, e che ora stanno pensando di andarsene, se non lo hanno già fatto. Il libro di Francesco Costa infatti comincia così, raccontando che, per la prima volta da quando la California è stata “creata”, la gente la abbandona. Invece di essere un posto in cui tutti arrivano e nessuno se ne va, è diventata un posto dove quelli che se ne vanno sono ormai di più di quelli che arrivano. Non perché manchino il lavoro o le opportunità, che anzi sono sempre tantissime e varie. E neppure perché non sia più un posto liberale, aperto, tollerante, amichevole, interessante.
In apertura: foto Richard Vogel, AP – Usa Today
Ma sostanzialmente perché mancano le case. Che è un po’ dire il fondamento. Del resto chiunque sia stato in California, o abbia visto un po’ di film, non può non essere rimasto impressionato dalla quantità di homeless che stazionano in vari luoghi delle città, e non può non essersi chiesto come sia possibile che un paese ricco come la California, liberale come la California (i democratici la governano da tantissimi anni), creativo come la California, non sia ancora riuscito a trovare un modo per risolvere il problema. Che se poi si va a guardare, un numero sempre maggiore di questi homeless ha un lavoro e un reddito. E che quindi non è un problema di persone cadute fuori dalla società, sebbene ci siano anche quelle. Il problema è che non ci sono abbastanza case, e quindi che le case costano troppo. Nelle zone dove c’è tanto lavoro la gente vive in posti minuscoli, cadenti e sovraffollati, spesso in condivisione, oppure si fa centinaia di chilometri casa-lavoro-casa e finisce per dormire in macchina per risparmiare tempo. E quindi se a un certo punto si presenta l’opportunità di andarsene, in Texas, in Idaho o in Colorado, ci vanno.
Che detto così non sembra un problema. Se non fosse che questi californiani non si portano dietro solo uno stile di vita che poi diffondono, ma si portano dietro anche il paradosso di tanto lavoro, tante opportunità, prezzi delle case alle stelle, impossibilità di vivere dove si lavora. Naturalmente non è colpa dei californiani ma del modello che sta dietro a questo modo di procedere. Con degli stati e dei governi che non sono in grado di fare nulla per calmierare il prezzo delle case o costruirne di nuove in modo efficiente e sensato. E anche qui in Europa, anche a Milano senza andare lontano, succede che dei quartieri che prima erano popolari, accessibili, normali, a un certo punto diventano chic, diventano desiderabili, e chi ci abitava prima non si può più permettere di starci. Perché insieme ai prezzi delle case aumentano anche quelli dei negozi, dei bar, dei servizi. Si chiama gentrification, l’hanno chiamata così gli inglesi che hanno trasformato Londra, e l’abbiamo vista succedere in diverse zone di Milano, non ultima l’Isola, quartiere super popolare diventato hipster, trendy, bellissimo sì ma al limite dell’invivibile per non chi sia ricco e magari anche giovane. Il racconto di Costa continua analizzando più in profondità la situazione di San Francisco e di Los Angeles, e poi le questioni razziali, la polizia, le armi, le prospettive. E quello che convince di questo racconto è che Francesco Costa in tutti i posti di cui parla c’è stato. Come uno di noi. Nonostante sia il vice direttore del Post, i suoi viaggi in America sono stati realizzati grazie al crowd funding. Quindi niente palazzi lussuosi da dove guardare il paese, ma viaggi normali, incontri ed esperienze autentiche. Niente censure o azionisti di riferimento a cui rendere conto. Come già “Questa è l’America”, il saggio di Francesco Costa si può leggere, e anzi si legge con più interesse, se in America si è stati più volte e se la si conosce un po’. Cosa che, a mio modesto parere, non si può dire della media dei libri italiani sull’America.
E soprattutto la questione dell’evoluzione, o involuzione, delle città, è importante per tutti: perché in America certe cose si vedono meglio. La scala in cui avvengono certi cambiamenti è tale che diventa istruttiva, paradigmatica. E anche il fatto che la società sia veramente liquida rende evidenti a occhio nudo cose che qui da noi richiedono molta attenzione per essere viste. E forse, vedendo così chiare le storture che un certo tipo di sviluppo economico comporta per la società, potremmo pensare di fare le cose diversamente. È difficile, certo. Ma se intanto un libro ci aiuta a capire, e ci dà un’idea di quello che si dovrebbe fare, abbiamo cominciato. E si dice che chi ben comincia è a metà dell’opera.
Buona lettura!