È ancora presto per valutare quale impatto ha avuto il dibattito di questa notte sulla campagna elettorale che tra 20 giorni porterà all’elezione del nuovo presidente americano. Tuttavia, i sondaggi della vigilia davano un distacco di quasi 7 punti tra Hillary Clinton e Donald Trump. L’ex Segretario di Stato sta ottenendo buoni risultati anche nei cosiddetti Battleground States, gli Stati dove il risultato è più incerto: mentre un mese fa in 7 Stati su 13 Trump era in vantaggio, oggi la quota è scesa a 4. Questi movimenti non si devono tanto a spostamenti di elettori da Trump a Clinton bensì all’aumento dell’astensionismo tra i sostenitori del partito Repubblicano. Nonostante la campagna elettorale in corso ci abbia riservato più di un colpo di scena, una rimonta di Trump ora non avrebbe precedenti.
Per seguire gli avvenimenti e i temi di questa elezione, l’ISPI ha pubblicato un Rapporto, curato da Paolo Magri, e organizzato il ciclo di eventi “Gli Stati Uniti alle urne” in collaborazione con il Consolato Generale degli Usa a Milano e la Fondazione Corriere della Sera. L’ultimo appuntamento sulle sfide del nuovo presidente si terrà il 16 novembre quando ormai conosceremo il nome del successore di Barack Obama. Inoltre, l’ISPI cura il blog U.S. Election Watch che raccoglie i contribuiti di studiosi e giornalisti sui temi, le curiosità e le peculiarità di questa campagna elettorale.
L’agenda economica dei candidati
Gli Stati Uniti sono reduci da una doppia recessione, segnata da bolle nel mercato finanziario e in quello immobiliare, alla quale ha però fatto seguito una decisa ripresa. Quali sono le proposte dei candidati per ridurre la disoccupazione, aumentare gli investimenti e rivedere la politica fiscale? Ne hanno parlato all’evento ISPI: Francesco Daveri, Università Cattolica di Milano; Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera; Danilo Taino, Corriere della Sera; Stefano Venturi, American Chamber of Commerce in Italy e Hewlett Packard Enterprise Italia.
L’eredità di Obama in politica estera
Gli accordi con Cuba e l’Iran, le tensioni con la Russia, il coinvolgimento militare in Siria, Iraq e Libia sono solo alcuni dei lasciti dell’amministrazione Obama in politica estera. Cosa dobbiamo aspettarci dalle posizioni di Clinton e Trump su questi argomenti? Alessandro Colombo, ISPI e Università degli Studi di Milano, Viviana Mazza, Corriere della Sera, Gianluca Pastori, Università Cattolica e ISPI e David Unger, giornalista e Johns Hopkins University Bologna, si sono confronti su questi temi durante il secondo appuntamento del ciclo di incontri.
La società americana allo specchio
Questa campagna elettorale sta fecendo emergere diversi aspetti di una società, quella americana, che pensavamo di conoscere e che invece pare sorprenderci. Le discriminazioni razziali, la paura degli immigrati, il ruolo della donna e i conflitti che interessano le diverse classi sociali sono solo alcuni dei temi affrontati nel terzo appuntamento del ciclo da Oliviero Bergamini, RAI, Aldo Grasso, Corriere della Sera, Manlio Graziano, Autore di “In Rome we trust”, Paolo Messa, Centro Studi Americani, Serena Danna, Corriere della Sera.
Il rapporto ISPI
Prefazione:
“Nel 2008 Barack Obama prevalse sul «guerriero» John McCain, perché circa i due terzi dell’elettorato america-no avevano come prima preoccupazione la crisi economica appena esplosa e relegavano invece ai margini le campagne di «guerra al terrorismo», che importavano solo all’11-15 per cento. A gennaio 2016 il 51 per cento dell’opinione pubblica americana considera invece di nuovo il terrorismo islamico la prima emergenza. Obama era un «guerriero riluttante». Come promesso in cam-pagna elettorale, pose subito fine all’impegno militare in Iraq, la «war of choice» (la guerra condotta per scel-ta); e poco dopo concluse anche la «war of necessity» (la guerra fatta per necessità), il conflitto in Afghanistan. Nella National Security Strategy del 2015 il ritiro delle forze armate dai vari conflitti è vantato come fosse di per sé un successo: «Sei anni fa, vi erano circa 180.000 truppe americane in Iraq e in Afghanistan. Oggi, ve ne sono meno di 15.000».
Giustamente Obama è stato definito un «jefferso- niano», riluttante quindi all’uso della forza e scettico sull’esportazione della democrazia. La citata NSS si apre con questa affermazione: «Il problema non può mai essere se l’America debba esercitare un ruolo di guida, ma come farlo». La risposta, in coerenza con lo stile jeffersoniano, è: «Noi guideremo con l’esempio. La forza delle nostre istituzioni e il nostro rispetto per lo Stato di diritto forniscono un esempio per la governabilità democratica. Quando noi sosteniamo i nostri valori all’interno, siamo meglio in grado di promuoverli nel mondo». Il tradizionale unilateralismo americano è riaffermato, ma in forma assai attenuata: «All’estero, stiamo dimostrando che, pur se pronti ad agire unilateralmente contro qualsiasi minaccia ai nostri interessi vitali, noi siamo più forti quando mobilitiamo un’azione collettiva».
Obama è meno legato alla civiltà occidentale e soprattutto all’eredità che l’Europa ha trasmesso agli Stati Uniti, mentre dal punto di vista geostrategico la sua amministrazione ha prestato maggiore attenzione all’Asia rispetto al Vecchio Continente, soprattutto nei primi cinque anni. Un esempio del suo multicultura- lismo Obama lo aveva dato nel discorso al Cairo del 5 giugno 2009, giustamente criticato per le concessioni politicamente corrette fatte all’Islam e al suo ruolo po- sitivo nel mondo, anche nella storia degli Stati Uniti!, dove trovava perfino modo di accusare i «paesi occidentali» di praticare la discriminazione contro le donne musulmane che portano il hijab, dal presidente scorrettamente pronunciato «hajib».
Obama ha conseguito alcuni obiettivi, tra cui l’indipendenza energetica – sfidando gli ambientalisti con le ricerche di shale gas e il deepwater drilling (la trivellazione in acque profonde) per il petrolio, e sollevando non poche contraddizioni con altre politiche ambientaliste come il Clean Power Plan –, l’eliminazione di Osama bin Laden e più in generale l’aver scongiurato altri clamorosi attacchi terroristici sul territorio americano. Aveva promesso un maggiore rispetto del diritto internazionale, ma gli Stati Uniti continuano a non aderire al Tribunale penale internazionale, il carcere di Guantánamo è ancora in funzione, senza contare che l’uso dei droni per esecuzioni mirate, l’infiltrazione nelle campagne di vaccinazione per raccogliere informazioni e lo spionaggio a tappeto di amici e alleati non hanno certo migliorato l’immagine di Washington. Obama è stato solo più furbo di Bush Jr., non più «morale». Non sono neppure mancati i «danni collaterali», come il bombardamento dell’ospedale di Kunduz il 3 ottobre 2015. L’apertura a Cuba è un perfetto esempio di stile jeffersoniano: si punta agli affari, trascurando completamente di porre il problema della democrazia. Tuttavia, anche senza avere alcuna simpatia per i fratelli Castro, non si vede perché tale problema andrebbe sollevato all’Avana e non in mille altre situazioni; del resto non ne parla nemmeno il papa. Il dialogo con Cuba, ma soprattutto il cambio di presidente in Argentina e il declino di Nicolás Maduro in Venezuela e di altri caudillos antiamericani hanno rialzato le sorti degli Stati Uniti in America Latina.
Naturalmente, a scusante delle speranze deluse, va ricordato che Obama ha dovuto affrontare uno scenario che, sia pur privo del singolo drammatico evento epocale qual è stato l’11 settembre 2001, si presentava complesso e disordinato in misura crescente. Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2014 la situazione internazionale era progressivamente peggiorata lungo i due «archi di crisi» identificati già negli anni Novanta del XX secolo e materializzatisi nel primo decennio del terzo millennio: la regione del Mediterraneo al- largato – o Middle East and North Africa (MENA) – e l’Europa centro-orientale. Entrambe le situazioni sono affrontate in questo volume.
Riguardo alle conseguenze delle «primavere arabe» e all’ascesa del Califfato, la politica di Washington è par- sa esitante, talvolta contraddittoria e parzialmente disimpegnata. Il futuro dirà se l’accordo con l’Iran funzionerà. Nel marzo 2011 fu la Francia, seguita a ruota dalla Gran Bretagna, a promuovere un intervento militare in Libia. Un replay fu di poco evitato in Siria, dove infuriava e infuria la guerra civile, con un complesso gioco di ingerenze internazionali. Nel settembre 2013 Obama lanciò un ultimatum al governo di Bashar Hafiz al-Assad minacciando entro 48 ore un intervento militare punitivo, ma dovette fare marcia indietro di fronte all’opposizione dell’opinione pubblica e di parte del Congresso, di Russia, Cina, Iran, Italia e Santa Sede. Dopo gli attentati del novembre 2015, il pacioso presidente Hollande, come Bush nel 2001, proclamava che il suo paese era in guerra, intensificava i bombardamenti contro l’IS (Stato Islamico) senza chiedere vani permessi, annunciava misure di emergenza sul piano interno e ignorava la NATO, invocando solo l’art. 42.7 del Trat- tato di Lisbona della UE.
Il cerchiobottismo sembra ispirare, inevitabilmente, i rapporti con la Cina. Da un lato Washington «modernizza» le alleanze con Giappone, Corea del Sud, Australia e Filippine, ossia i patti di contenimento di Pechino, ai quali si aggiunge il rapporto col Vietnam, dall’altro esprime l’auspicio di una «relazione costruttiva» con una Cina «stabile, pacifica e prospera».
Se nel 2001 Bush appariva un guerrafondaio, quindici anni dopo il panorama è più complesso. La lettura più semplicistica sostiene che sia diventato tale (e più pericoloso per tutti) a causa degli errori di Bush. Forse però hanno pesato altri errori, di europei e di americani, di un Occidente annaspante in una crisi epocale di valori e di leadership che ne aggrava i fattori tendenziali di declino: The Rise of the Rest, dopo secoli di Rise of the West, secondo la formula di Fareed Zakaria.
È certamente vero che «l’America ha una capacità maggiore di qualunque altro paese di adattarsi e riprendersi dalle crisi», come conclude la citata NSS. Il senso dell’adattamento nel quarto di secolo post – guerra fredda sta nel passaggio degli Stati Uniti dalla condizione di superpotenza solitaria a quella di potenza «prima tra pari» (first among equals), espressione ormai ricorrente nella pubblicistica internazionalistica. Gestire al meglio il declino è stato il compito di Obama”.
Massimo de Leonardos ordinario di Storia delle relazioni internazionali e direttore del dipartimento di Scienze Politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore