«Mi ero impegnato a essere per Costanza le gambe che aveva perduto, gli occhi al posto dei suoi che non funzionavano più, e nell’ultimo periodo anche le braccia e le mani per lavarsi, pettinarsi, vestirsi, mangiare. Questo, ben presto, ha creato tra me e lei, dopo 45 anni di matrimonio, pur molto ricchi e intensi, un’intimità che non avevamo mai vissuto». Il giuslavorista Pietro Ichino ha sempre offerto di sé un profilo accademico; ma nell’ultima notte al fianco dell’amata moglie Costanza, dopo una lunga malattia che l’ha progressivamente paralizzata, ha scritto sul suo blog il racconto di questi anni di sofferenza con parole commoventi.
Professor Ichino, che malattia aveva sua moglie?
«Era affetta da otto anni da paralisi sopranucleare progressiva (Psp), che ha lentamente azzerato tutte le sue facoltà vitali. Una malattia inarrestabile, che distrugge il fisico, ma lascia intatta la capacità di intendere. “Sento la vita che mi scivola via tra le dita”, è l’ultima cosa che mi ha detto, due giorni prima di perdere conoscenza».
Perché ha sentito il bisogno di raccontare la sua intimità familiare?
«Nella notte di sabato stavo vegliando Costanza, sapendo che ormai la morte poteva venire, ma non sapendo quando. Ripensavo a questi due anni nei quali l’ho assistita, e in cui ho scoperto quanto fosse vero il detto di mia nonna Paola: “Non puoi sapere se quel che ti accade è per il tuo male o per il tuo bene. Anche perché, a ben vedere, questo dipenderà essenzialmente da te”. Davanti a una malattia come questa potrebbe apparire quasi un insulto alla sofferenza sostenere che può esserci dentro del bene. Invece a me è accaduto di trovare anche qui quel bene nascosto».
Come vi eravate conosciuti?
«Nel libro La casa nella Pineta (Giunti) racconto come è nato il nostro amore in montagna, poi dei fermenti che vivemmo insieme negli anni 70 e 80. Costanza, che era ricercatrice di ruolo di storia moderna all’Università di Bergamo, a metà anni 80 lasciò quel posto fisso e ben retribuito per venire a lavorare con me come co.co.co., retribuita peggio, per la Rivista italiana di diritto del lavoro di cui all’epoca ero caporedattore. E continuò a farlo per 23 anni».
In che cosa è consistito il «bene nascosto» che lei ha trovato in questi anni di malattia gravissima?
«Ogni volta che Costanza mi chiedeva di spostarsi dal letto o dalla poltrona alla carrozzella e viceversa era un abbraccio stretto, e qualche volta ci fermavamo a metà strada abbracciati così, indugiando a dondolarci come in un ballo cheek to cheek. Abbiamo scoperto la delizia nuova del leggere ad alta voce per lunghe ore serali libri stupendi, che letti insieme diventano ancora più belli. Ma l’intimità maggiore era quella delle sveglie notturne per una delle tante necessità, anche solo per aiutarla a cambiare posizione nel letto: accadeva che non ci riaddormentassimo, ma restassimo a lungo abbracciati parlando sottovoce di tutto quello che ci stava più a cuore».
Nel racconto lei parla di cose di cui si parla solo di notte.
«Perché di giorno non si riesce a parlare della morte, mentre nel buio della notte Costanza e io riuscivamo a parlare serenamente del tempo che ci era lasciato da vivere insieme e di quello che sarebbe seguito, nel quale lei non sarebbe stata più qui, ma che lei provava a immaginare con me, così in qualche modo lasciando in esso un segno della sua presenza».
Corriere della Sera, lunedì 11 maggio, di Claudio Bozza