Quella del 2019 è stata l’estate degli incendi. Come abbiamo potuto seguire soprattutto sui social network, dopo la Siberia è stata la volta dell’Amazzonia, il polmone del nostro Pianeta. In questo caso gli incendi sono stati 74 mila, con un aumento di più dell’80% rispetto allo scorso anno. A differenza di quelli siberiani, l’origine della tragedia qui è umana. Tali incendi vengono infatti appiccati sia legalmente, in aree già precedentemente considerate agricole, sia illegalmente, per poter ottenere nuovi terreni adattabili all’allevamento intensivo e all’agricoltura industriale.
Con i suoi 5 milioni e mezzo di km² di superficie, l’Amazzonia è tra le maggiori fonti dell’ossigeno che respiriamo e la vegetazione che la compone trattiene tonnellate e tonnellate di carbonio che altrimenti, liberi di circolare nell’atmosfera, aumenterebbero l’effetto serra. Inoltre, con i suoi 90 milioni di piante, oltre 100 mila specie di invertebrati, 3mila di pesci, 400 di anfibi, 380 di rettili, 1300 di uccelli e 430 di mammiferi, la foresta amazzonica è il più grande contenitore di biodiversità nel mondo. Non è un caso che sia appunto l’hotspot di biodiversità (ndr: regioni della Terra caratterizzate da alti livelli di diversità biologica a rischio, a causa dell’essere umano) più ricco del pianeta. Ricordiamoci anche che oggi in Brasile vivono circa 305 diverse tribù indigene (quasi 900mila persone) che fanno della Foresta e di ciò che offre fonte di vita. La conservazione delle specie e di questi ecosistemi nella loro totalità non solo è fondamentale per fermare le estinzioni di massa che l’uomo nell’ultimo secolo sta causando, ma perché, facendo bruciare ettari di foresta, ci priviamo del servizio chiave che questo ecosistema ci fornisce: trattenere CO2 all’interno di piante, suolo e lettiera sotto forma di materia organica.
Tra i colpevoli indiretti di tutto questo fenomeno ci siamo anche noi con il nostro consumo, in alcuni Paesi esagerato, di proteine animali, di carne. Gli incendi infatti sono principalmente appiccati per ottenere spazi. Spazi fondamentali non tanto per poter ottenere un regime di vita più salutare per il bestiame allevato intensivamente, ma per guadagnare nuove terre per l’allevamento e soprattutto che producano mais e soia, elementi essenziali per i mangimi animali. Questi ultimi non vengono utilizzati solo in Brasile, ma anche nel resto del mondo. L’Italia, infatti, importa circa 1.3 milioni di tonnellate l’anno di soia, la metà delle quali proviene proprio dal Brasile. “Ad oggi, l’Amazzonia risulta disboscata per poco meno del 90% rispetto a quello che è stato stimato fosse il suo stato iniziale ed è stato tutto sostituito principalmente da coltivazioni di soia” spiega Rômulo Batista, responsabile foreste di Greenpeace Brasile.
Secondo il Dipartimento americano dell’Agricoltura, il Brasile risulta anche il maggior esportatore mondiale di carne bovina, fornendo quasi il 20% delle esportazioni mondiali . Tale percentuale appare ancor più significativa alla luce dei dati FAO secondo cui il bestiame, soprattutto bovino, genera un quantitativo di gas serra maggiore rispetto a qualsiasi altra fonte alimentare. Esso infatti rilascia gas più impattanti della CO2 quali il metano, tramite i microorganismi attivi nella digestione, e l’ossido d’azoto dalla decomposizione del letame. In questo modo viene generato poco meno del 15% delle emissioni globali. Tale percentuale risulta, ad esempio, maggiore, anche se di poco, a quella dovuta al settore dei trasporti (13.5%). Bisogna sottolineare che solo parte delle emissioni causate dall’allevamento intensivo sono dovute direttamente alle emissioni bovine stesse. Gran parte di esse è determinata dall’inefficienza nel processo di trasformazione del cibo da vegetale ad animale. Basti pensare alle grandi quantità di terreno, acqua ed energia richieste per il mantenimento del processo produttivo dell’allevamento.
Non è un caso che quest’anno l’Earth Overshoot Day (il giorno in cui la Terra termina le risorse naturali che gli ecosistemi riescono a generare ogni anno) sia arrivato di 3 giorni in anticipo rispetto a quanto stimato. Il 29 di luglio abbiamo esaurito le risorse che la Terra ci offriva. Significa che da fine luglio, la nostra domanda di acqua, aria, cibo ha superato le capacità del pianeta di rigenerarle. Abbiamo solo una Terra ma consumiamo come se avessimo 1.75 Terre a disposizione. Consumando quasi il doppio stiamo dunque attingendo alle riserve, che però non si sa per quanto potranno durare. Consultando il sito del Global Footprint Network, si nota che l’Italia è il nono Paese con il maggior impatto sul pianeta. Con il nostro stile di vita avremmo bisogno di ben 2.7 Terre.
Ora che, per le potenziali tragiche conseguenze, gli incendi in Amazzonia hanno attirato l’attenzione di tutti noi, non pensiamo che a distanza di quasi un mese sia tutto finito. Tante sono le donazioni fatte e le organizzazioni nate per salvare questo ecosistema unico nel suo genere. Non potendo agire in modo diretto in Amazzonia, possiamo lavorare sul nostro stile di vita, cercando di non “costare” più del dovuto al nostro Pianeta adottando stili di vita sostenibili e divenendo parte trainante del cambiamento. Viaggiamo con consapevolezza, riduciamo la nostra produzione di rifiuti, ma soprattutto mangiamo meno carne. In questo modo contribuiamo alla riduzione della domanda rendendo meno redditizio l’uso dei terreni sottratti alla foresta per questi allevamenti. Questo non significa necessariamente dover diventare vegetariani o vegani, ma avere un consumo di carne più sostenibile che potrà portare giovamento anche alla nostra salute. Nessuna patologia è infatti dovuta unicamente al consumo di carne. Nonostante ciò, i medici concordano sul fatto che chi segue diete ricche di proteine animali, soprattutto carni rosse e lavorate, incorre in un maggior rischio di svilupparne. Cerchiamo di acquistare prodotti locali e stagionali, evitando quelli esotici. Se acquistiamo carne al supermercato, controlliamone le etichette. L’associazione Rainforest Alliance certifica e garantisce che, se scegliamo di consumare carne proveniente dal Brasile, questa venga da allevatori che rispettano alti standard di qualità ambientale allevando il bestiame in zone non sottratte alla foresta.
Fare attenzione alle proprie scelte è sempre il primo passo verso il cambiamento.