Dopo tanti anni in cui il problema dei cambiamenti climatici veniva preso sotto gamba, ignorato o posposto, il 2019 sembrava essere l’anno della presa di coscienza collettiva riguardo l’avvicinarsi del punto di non ritorno. Ciò si deve in gran parte ai giovani che hanno occupato le piazze e le strade di tutto il mondo chiedendo ai loro Governi di considerare il clima un punto chiave dei loro tavoli di discussione.
Gennaio 2020 con i suoi 2° sopra la media e i 21° raggiunti in Antartide è stato il più caldo di sempre.
L’Unione Europea però si stava muovendo. La nuova presidentessa Ursula von der Leyen, subito dopo l’insediamento della nuova Commissione, aveva promosso il Green Deal Europeo come risposta del nuovo esecutivo all’emergenza climatica. Si ragionava su come mettere in atto una serie di misure volte a rendere la produzione di energia e lo stile di vita dei cittadini dell’Unione sempre più sostenibili e meno dannosi per l’ambiente. In febbraio è arrivato però in Europa il coronavirus, che con la sua portata globale sembra aver modificato quelle che sono le nostre priorità.
Il fattore climatico sembra aver giocato un ruolo anche nello sviluppo di questa epidemia. Lo mostrano i risultati di una ricerca condotta dai professori Rubolini e Ficetola del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università di Milano. Sfruttando il database della Johns Hopkins University, sono state generate mappe globali che mostrano come il tasso di crescita dell’epidemia potrebbe variare nei prossimi mesi. La crescita del virus sembra essere significativamente associata a temperatura e umidità: l’epidemia cresce più rapidamente a temperature di circa 5°C ed umidità medio-bassa. Difatti nelle zone tropicali, caratterizzate da climi molto caldi e umidi, l’epidemia sembra starsi diffondendo in maniera significativamente più lenta. L’inquinamento atmosferico, la densità abitativa e le caratteristiche dei sistemi sanitari nazionali non sembrano avere effetti significativi sulla crescita dell’epidemia.
Mi raccomando, facciamo attenzione e non scambiamo i risultati di questa ricerca come dati a favore dell’innalzamento delle temperature. Quello che viene evidenziato, ha spiegato il Prof Rubolini, è che Covid-19 è una malattia stagionale, come lo è ad esempio l’influenza, legata probabilmente alle stagioni. Con il coronavirus tutto è stato messo in stand-by a causa dell’emergenza sanitaria. I giovani hanno smesso di manifestare ed anche la 26esima Conferenza delle Parti (COP26) della Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UNFCCC), prevista per il prossimo novembre a Glasgow, è stata rinviata al 2021. Le nostre priorità sono cambiate: ci ritroviamo a guardare al breve periodo a causa dell’incertezza che ci circonda. Per i problemi causati dal cambiamento climatico un simile approccio purtroppo non è più possibile. Pur tenendo presente la drammaticità della situazione non possiamo infatti ignorare come la mancanza di una prospettiva più ampia rischi di avere effetti devastanti sul clima.
Con lo stare in casa le emissioni di CO2 sembrano essere calate. Dando un'occhiata ai primi dati usciti, è stato calcolato per esempio che durante ogni giorno di ‘lockdown’, in Europa sono state emesse
solamente il 42% delle emissioni di CO2 normalmente disperse nell’atmosfera. Le città più inquinate del Mondo sembrano aver cambiato i loro colori, come mostrato da un interessantissimo reportage del The
Guardian. Ne è un esempio la foto del noto India Gate qui sotto, ritratto a sinistra ad ottobre del 2019, e a destra ad inizio aprile 2020.
Ma che effetti ci saranno non appena i Paesi di tutto il mondo ripartiranno? Bisogna chiederselo ora, anche nel bel mezzo della crisi sanitaria. Il cambiamento climatico è un problema di scala mondiale che non può essere messo da parte. Il coronavirus infatti rischia di avere un effetto devastante sul clima. Alcuni paesi in grave crisi economica potrebbero difatti decidere di mettere da parte i limiti imposti per limitare l’innalzamento delle temperature al fine di riavviare a pieno ritmo il motore economico del proprio Paese.
Un’interessantissima analisi recente del WWF ha rilevato inoltre che le zoonosi (malattie infettive che possono essere trasmesse dagli animali all'uomo e viceversa) di origine selvatica, come sembra essere il coronavirus, potrebbero rappresentare anche in futuro una minaccia per la popolazione umana mondiale a causa del cambiamento climatico. Infatti, gli effetti diretti ed indiretti del cambiamento climatico sembrano essere in grado di influenzare il rischio di trasmissione e diffusione di queste patologie. Questo è dovuto al fatto che da una parte, incidendo in termini di variazioni di temperatura, disponibilità di risorse ed altro sulle caratteristiche fisiche dell’ambiente in cui uomini ed animali vivono, influenzano la riproduzione, il metabolismo, la sopravvivenza e la distribuzione nello spazio. Dall’altra gli effetti del cambiamento climatico possono avere un impatto significativo anche sulle specie che ospitano o che trasportano patogeni, influenzando la loro possibilità di infettare specie diverse, uomo incluso. In questo momento di crisi i nostri Governi, ma noi per primi, dobbiamo ricordare che la lotta al cambiamento climatico e la protezione della biodiversità e della nostra salute vanno di pari passo, come due facce della stessa medaglia.
Oltre a questo il mese scorso abbiamo elencato una serie di comportamenti virtuosi da adottare in
quarantena (per chi se li fosse persi, li trovate qui). Cerchiamo di non dimenticarcene al termine della quarantena e di mantenerli come abitudine anche per il futuro! Non è stato positivo, ‘grazie al coronavirus’ scoprire tutti i negozietti alimentari del nostro quartiere e la comodità di andare a fare la spesa camminando ed evitando la macchina nei negozi/supermercati di zona?
Il momento della ripartenza deve essere un’occasione per ripensare la società in modo più responsabile dal
punto di vista sia ambientale che sociale e questo dipende solo ed unicamente dall’impegno singolo e collettivo di ognuno di noi.