Quale è il punto di vista del FAI sul rapporto tra gli Italiani e il loro patrimonio culturale?
“Noi pensiamo che ci sia stato in questi ultimi anni un cambiamento nella domanda di cultura espressa dagli Italiani. Lo dicono molti indicatori: sono cresciuti i visitatori di mostre e musei, i frequentatori dei cinema e dei festival culturali. E c’è una nuova consapevolezza dell’opinione pubblica che penso si possa far coincidere con il primo crollo di Pompei. Gli Italiani hanno finalmente capito che la salvezza del patrimonio è un’emergenza nazionale, una priorità assoluta. Questo cambio di percezione ha coinvolto un pubblico molto ampio, che non è più solo quello ristretto ed elitario abituato a interessarsi di queste cose.
Oggi – nonostante la crisi economica – occuparsi di monumenti non è più visto come un lusso. Forse la gente si è resa conto che le automobili, le scarpe e le borsette si possono produrre anche in Cina, mentre l’unica cosa che noi abbiamo di non replicabile è il nostro patrimonio”.
Questo dovrebbe rendere più facile il vostro lavoro…
“Certo il nostro lavoro è divenuto più facile. Lo avvertiamo. Quest’anno nella giornata FAI di primavera abbiamo fatto 4.000 iscrizioni in più e la campagna di raccolta fondi ha fatto 10.000 iscritti in più rispetto agli 80.000 dell’anno scorso.
Nell’ultima puntata di Striscia la Notizia a cui abbiamo partecipato hanno mandato un SMS da 2 euro ben 17.000 persone. 17.000 persone hanno preso il telefonino in mano per dare un aiuto non per un’emergenza umanitaria ma per salvare il nostro patrimonio. Negli anni passati dei numeri così non li avevamo mai raggiunti. Ed è per questo che la nostra presenza sui media è più significativa, specialmente in televisione. Il fatto che si faccia una campagna con una certa visibilità mediatica fa capire che il FAI ha bisogno di soldi e fa capire che anche il piccolo contributo è importante, è accessibile anche ai giovani. E questo ha certamente favorito una nuova percezione della Fondazione che svolge un ruolo importante per la collettività e che per questo ha bisogno di aiuto economico.
Oggi tutta la nostra politica di comunicazione è volta a infrangere l’idea che il FAI sia un club di ricche signore che non ha bisogno di soldi”.
Un altro cambiamento importante è rappresentato dal recente cambio di Presidenza…
“Il cambio di Presidenza è arrivato nel momento giusto. La straordinaria lungimiranza, la fantasia, l’immaginazione irripetibili della signora Crespi – tutte qualità che la Fondazione ha assorbito e che oggi fanno parte del nostro lessico familiare – hanno lasciato il posto a un atteggiamento più organizzativo, più manageriale e più strategico che sono le qualità della nuova presidente, Ilaria Borletti. Ma vorrei sottolineare l’omogeneità della formazione sia culturale sia etica delle due signore. Entrambe, pur appartenendo a due generazioni diverse, escono dallo stesso ceppo di grande borghesia illuminata, quella borghesia che è l’erede dell’illuminismo lombardo. Entrambe condividono uno stesso atteggiamento nei confronti della vita, del sociale e del prossimo, quell’atteggiamento che anima la migliore borghesia lombarda che una volta regalava gli ospedali e che oggi è attenta al bene del proprio Paese. Una borghesia aperta che non pensa solo al proprio “particulare” ma anche al bene comune. Questa è la storia di Milano, questo è l’insegnamento che Milano nell’illuminismo – la Milano del Verri e del Beccaria – ha dato all’Europa. Ed è importante che il FAI sia oggi l’espressione di questa tradizione culturale ed etica perché di persone della generazione dei cinquantenni che la pensano così non ce ne sono molte”.
Ci sono altri cambiamenti di rilievo nella vostra strategia attuale?
“C’è un cambiamento molto importante che coincide con l’inaugurazione del Bosco di San Francesco che avrà luogo ad Assisi a breve. In questo ultimo anno le donazioni che abbiamo ricevuto hanno riguardato soprattutto il paesaggio. L’11 novembre inaugureremo il Bosco di San Francesco ma abbiamo anche ricevuto in donazione 60 ettari a Punta Mesco, tra Levanto e Monterosso, terre che in questi giorni sono in grave emergenza. Punta Mesco è l’altro grande promontorio insieme al monte di Portofino – forse non altrettanto famoso – in una delle zone più belle della costa italiana. Su questi 60 ettari ci sono delle case coloniche dove realizzeremo un rifugio per coloro che faranno a piedi il sentiero che unisce Levanto e Monterosso. Lì si faceva lo Sciachetrà, il famosissimo passito ligure, si faceva l’olio, ma ora è tutto abbandonato. Quella di Punta Mesto sarà una grande opera di ricostruzione del paesaggio. Abbiamo anche ricevuto in donazione 100 ettari sulle Alpi Orobie in Valtellina sopra Morbegno con tre magnifici alpeggi e in uno di questi – quello più alto – riporteremo le mucche mentre una parte sarà destinata a rifugio. Questa alpe è sulla grande via delle Orobie, la grande passeggiata che collega tra di loro tutte le Alpi Orobie. Essendo una zona senza valanghe si potrà godere anche d’inverno andando con le ciaspole o le pelli di foca. Sarà un modo per ridare vita a un paesaggio montano che oggi è abbandonato..”
Questo cambiamento di indirizzo discende dalle donazioni che avete ricevuto o corrisponde a una vostra scelta? In ogni caso è un cambiamento di rilievo rispetto alla vostra tradizionale strategia orientata al restauro di beni architettonici prestigiosi.
“Se arrivasse una villa palladiana noi la accetteremmo volentieri. Ma queste donazioni sono arrivate nel momento giusto perché fanno capire meglio quella che è sempre stata l’anima del FAI. Progetti come la Kolymbetra o la Villa Gregoriana ci sono da sempre, però nella percezione comune è prevalsa l’idea che il FAI si occupi prevalentemente di ville e di castelli. I progetti che ci aspettano nei prossimi anni sono quasi tutti progetti di paesaggio. E sono progetti molto impegnativi. Ci siamo accorti di che cosa ha significato restaurare il Bosco di Assisi. E’ stato un lavoro titanico. E tutte queste saranno proprietà aperte al pubblico senza pagamento. Dunque dovremo ingegnarci per fare in modo che la gente dia comunque dei soldi anche senza pagare un biglietto di ingresso. Il che peraltro rientra in una comunicazione che noi già stiamo facendo in tutte le nostre proprietà per far percepire il pagamento del biglietto non come una tassa ma come un contributo alla manutenzione. Quindi ad Assisi, dove non ci sarà il biglietto obbligatorio, utilizzeremo altri modi per far sentire l’obbligo morale di dare due o tre euro. Dovrà diventare un gesto quasi spontaneo, la cui mancanza sia moralmente difficile da sostenere. Questo per noi non è un cambiamento di strategia ma sarà un cambiamento di percezione perché occuparsi di paesaggio è molto meno elitario che occuparsi di castelli”.
Il rapporto tra i vostri visitatori (380.000) e il numero dei soci (80.000) è ancora abbastanza squilibrato. Come spiegate questo scarto? Per quali motivi chi decide di trascorrere una giornata in un bene da voi gestito non si associa al FAI?
“Secondo me è abbastanza semplice da spiegare. E’ evidente che una persona che va a visitare Villa Panza a Varese non può avere una impressione di povertà o di bisogno perché vede un giardino tenuto magnificamente, i lampadari del Canonica che risplendono pulitissimi, una collezione d’arte che vale milioni di euro. E dunque i soldi preferisce darli a un povero bambino denutrito che veramente ha bisogno. Le nostre proprietà non comunicano bisogno. Quindi noi abbiamo cominciato – a Villa Necchi, al Castello di Masino e a Villa dei Vescovi – a fare delle piccole mostre lungo il percorso di visita che fanno vedere ai visitatori come abbiamo trovato la villa, quanto abbiamo speso per metterla a posto e quanto spendiamo di gestione ordinaria per mantenerla in questo modo.
Questo è un primo passo per far capire quale è il lavoro del FAI che altrimenti appare come un ricco signore che apre le porte dei suoi palazzi al popolo. E poi c’è da infrangere la convinzione che dei beni culturali si dovrebbe occupare lo Stato, che non ci sia veramente bisogno di una Fondazione che se ne occupa perché è lo Stato che deve farlo.
Ma oggi tutti si rendono conto che lo Stato non lo fa più e l’importanza di questo lavoro di sussidiarietà inizia ad apparire più chiara”.
Ed è anche divenuto più chiaro lo stato di degrado in cui versa il nostro patrimonio…
“Noi abbiamo un’iniziativa – i Luoghi del Cuore – che chiede alle persone di segnalare beni in stato di abbandono che si vorrebbero vedere restaurati. Quest’anno è stato un successo straordinario. Centinaia di migliaia di persone hanno dimostrato di essere consapevoli di questo disastro. Un disastro che purtroppo è destinato a continuare, anzi a peggiorare. Il peggio deve ancora venire perché nel 2013 andrà in pensione un gran numero di dipendenti del Ministero dei Beni Culturali che non verranno sostituiti. Ci saranno molti musei che dovranno chiudere perché non avranno più personale. Faccio un solo esempio: l’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli. E’ il terzo della romanità per dimensioni, non è alto come il Colosseo ma i sotterranei sono intatti con le gabbie dei leoni e delle giraffe e i meccanismi per tirar su gli animali. Questo monumento straordinario probabilmente chiuderà quando andranno in pensione i 10 custodi. Dovrà chiudere se non si interviene prima. Dunque io credo che siccome la situazione peggiorerà anche la percezione della necessità di un aiuto da parte dei privati aumenterà. E’ una vera emergenza nazionale, come l’emergenza rifiuti a Napoli. Naturalmente noi del FAI dobbiamo evitare il rischio di fare i primi della classe che dicono “Non c’è da preoccuparsi. Lo Stato non ce la fa, ci pensiamo noi”. Non è così perché è un lavoro in cui noi siamo bravi ma è un lavoro gigantesco. Un dato impressionante che ho sentito al Ministero dei Beni Culturali nel corso di un recente convegno con tutti i sovrintendenti italiani, è che nel loro complesso i monumenti gestiti dal Ministero – i musei, le aree archeologiche – pagano con i biglietti di ingresso non più del 5-7% delle spese. E’ una cosa ridicola! Noi con i redditi provenienti dalle proprietà paghiamo circa il 70% dei costi. Naturalmente è una cifra che si raggiunge non soltanto con i biglietti ma anche con i redditi derivanti dagli affitti d’uso, dai matrimoni e dai convegni e dalle foresterie che stiamo facendo. A Villa dei Vescovi abbiamo realizzato due meravigliose foresterie nei sottotetti della villa, a San Fruttuoso abbiamo una casetta che è sempre piena e adesso ne faremo un’altra. Ci siamo organizzati come il National Trust, non ci siamo inventati niente. Purtroppo c’è ancora una fascia di opinione pubblica legata ad alcune associazioni che nel passato sono state di grande importanza che ritiene che l’uso commerciale dei beni culturali sia un sacrilegio. E dunque abbiamo incontrato delle grandi difficoltà perché ci hanno accusato di essere commercianti. E’ una visione molto arretrata che deve cambiare. Anche al Ministero dei Beni Culturali c’è chi ritiene che in fondo, anche se il pubblico non ci fosse, i restauri si dovrebbero fare lo stesso. Mentre noi pensiamo che non abbia senso un restauro se non in funzione del ruolo che il monumento ha per le persone. Ogni bene ha un compito educativo, in sé non ha importanza che una colonna stia su! Si confrontano due opinioni diverse: il restauro per il restauro e il restauro finalizzato all’educazione e al coinvolgimento dei cittadini.
Per noi ogni monumento ha come primo compito un compito didattico, la crescita della cultura e quindi anche l’accrescimento interiore”.
C’è un valore “democratico” in quello che fate che consiste nel rendere disponibile ad un pubblico ampio quello che prima era un bene goduto da pochi. E’ un aspetto che non sempre viene apprezzato nell’azione del FAI…
“Certo. Villa dei Vescovi da questo punto di vista è un esempio perché abbiamo riempito le sue straordinarie Logge di divanetti di midollino dove la gente si può sedere e starsene tranquilla a guardare il paesaggio. E’ una cosa che alla gente piace moltissimo, c’è gente che si siede sul divanetto e fa il riposino pomeridiano come facevano i conti Olcese. E’ così, non è una visita esclusivamente culturale. Si va per vivere il piacere di godersi una meravigliosa villa. Anche a Villa Necchi, si può stare in giardino a chiacchierare come facevano le signore Necchi. Questo aspetto è ancora più evidente quando si interviene sul paesaggio come ad Assisi. Mentre a Villa Necchi o a Villa dei Vescovi si paga un biglietto per accedere ad uno spazio chiuso, al Bosco sei in un paesaggio aperto. Chiunque passando per la strada che lo attraversa può godersi quel paesaggio”.
Quanto conta per il FAI il rapporto con le aziende…
“Le aziende sono una parte molto importante. Abbiamo tantissime aziende che ci hanno aiutato e che continuano a sostenerci nei nostri progetti, compreso il Bosco di San Francesco. Se vogliamo espanderci dobbiamo cercare di dipendere meno da aiuti importanti di pochi e cercare di dipendere di più da aiuti magari più limitati di molti”.
Per quale motivo un’azienda italiana o che agisce sul mercato italiano dovrebbe sostenere il FAI?
“Il sostegno al FAI comunica l’appartenenza a uno stile, c’è uno stile italiano che è conosciuto in tutto il mondo. E’ lo stile della Ferrari, lo stile dei motoscafi Riva, è uno stile di vita. L’Italian way of life, e noi ci siamo dentro in pieno. E’ uno stile fatto di eleganza, di cultura, di tradizione, di design, di attenzione alla bellezza”.
Quali sono gli ostacoli che incontrate nel convincere le aziende a sostenervi?
“Abbiamo due concorrenti temibili. Uno è l’arte contemporanea che è diventata una vera mania. Noi ci siamo dentro, basti pensare a Villa Panza. E’ il solito provincialismo italiano. I nuovi paesi ricchi – la Cina, l’India – oggi producono molta arte contemporanea. L’arte la produci quando hai un senso di visione del futuro come l’America degli anni ‘60 e ‘70, gli anni in cui l’America dava al mondo il sogno americano.
Oggi i grandi artisti sono indiani e cinesi. Noi italiani siamo in un’epoca di introspezione e dobbiamo guardare a quello di straordinario che abbiamo fatto quando eravamo noi che eravamo trainanti e non scimmiottare questa mania dei musei di arte contemporanea quando poi l’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli chiude. Il Maxxi a Roma è molto bello ma non altrettanto le collezioni. E’ stato fatto un museo gigantesco dove il contenitore è più importante del contenuto. L’arte contemporanea va benissimo ma nelle giuste proporzioni”.
E l’altro concorrente?
“L’altro concorrente è e sarà sempre più il sostegno dato a chi ha bisogno. Ci sono molte aziende e fondazioni bancarie che ci rispondono che hanno deciso di occuparsi del Terzo Mondo. Nessuno può dire che non sia giusto occuparsi del Terzo Mondo ma in un paese come l’Italia non ci si può disinteressare di un’emergenza come quella che stiamo vivendo.
E’ un’emergenza che è anche di identità e di ruolo. Nella cultura occidentale l’Italia ha giocato da sempre un ruolo di apripista della cultura e della civiltà per la musica, la tipografia, l’arte, l’architettura, il design.
Non possiamo dire che non ci interessa più e che ci vogliamo occupare di altro, non è pensabile che un’azienda importante non si occupi di cultura in Italia perché significa rinunciare ad occuparci della nostra identità di Paese”.
Le ricerche dicono che i cittadini apprezzano l’attenzione che le aziende danno al loro territorio più di quella che rivolgono a Paesi lontani…
“Trascurare il proprio Paese è culturalmente sbagliato, è una mancanza di visione. Ed è un impegno che probabilmente è anche più fruttuoso in termini di ricadute sull’immagine, sulla reputazione. Ma alla fine è una questione di cultura. Purtroppo ci sono persone – anche in posizioni importanti – più interessate alle donne che alla cultura e a cui non interessa nulla della cultura italiana. Ministri che non capiscono, che considerano il patrimonio una spesa.
Ci vogliono ministri che sono capaci di fare la voce grossa, di combattere, di sguainare la spada per opporsi a progetti che deturpano il territorio. E ci vuole un governo che sa di avere una prospettiva di medio periodo davanti a sé e non solo qualche mese”.
(di Paolo Anselmi, da Social Trends- GfK Eurisko- novembre 2011)
Rinasce il bosco di San Francesco
Il Bosco di San Francesco, bene donato al FAI nel 2008 da Intesa Sanpaolo, sorge al fianco della Basilica di San Francesco di Assisi nella cornice di un tipico paesaggio italiano. Un’estensione di 63 ettari di incredibile varietà vegetativa che include un complesso architettonico del XII secolo: un inestimabile bene paesaggistico e culturale, modello di convivenza armonica tra uomo e natura, che viene inaugurato ed aperto al pubblico dal FAI l’11 novembre 2011.Ad oggi più di 20 aziende e fondazioni di impresa hanno sostenuto le operazioni di recupero del Bosco di San Francesco attraverso numerose modalità. I fondamentali contributi di Intesa Sanpaolo, Arcus e Fondazione
Cassa di Risparmio di Perugia hanno permesso il finanziamento delle principali azioni di riqualificazione agro-forestale e di consolidamento strutturale. Molte aziende hanno sostenuto interventi specifici: Enel il recupero e la salvaguardia di un’ampia area boschiva, Ferrarelle il restauro di parte del Mulino benedettino, Fondazione Telecom Italia l’innovativo progetto di comunicazione, Fondazione Zegna l’opera di land art “Il Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto, Andreas Stihl l’adozione dell’area pic nic
e la fornitura di attrezzature per la cura della flora.
Alcune imprese hanno lanciato campagne di raccolta fondi donando parte del ricavato sulla vendita di prodotti selezionati: Ikea Italia, Bridgestone Italia, Franco Cosimo Panini, Mondadori Electa, Aboca e The Body Shop. Grazie all’intervento tecnico di Rehau, il complesso architettonico è stato dotato di impianti di climatizzazione a basso impatto ambientale.
Le aziende interessate al Bosco di San Francesco o ad altri progetti paesaggistico-ambientali del FAI possono rivolgersi a Mara Garbellini, Responsabile Ufficio Marketing e Raccolta Fondi Aziende del FAI (02467615213 – marketing@fondoambiente.it).