Comprare cibo locale? Lo strano caso dei limoni italiani

Attualmente abbiamo a disposizione molto cibo variato e a buon prezzo, ma forse non ci rendiamo conto di quanto tutto questo sia collegato alla possibilità di trasportarlo da una parte all’altra del mondo. Il dibattito sul trasporto del cibo, così come quello sul trasporto dei prodotti tessili, sta diventando sempre più importante. Quando si parla di “food miles”, o di strada percorsa dal cibo, possiamo fare un semplice calcolo, considerando dove è stato coltivato un prodotto, e dove lo consumiamo, per avere un’idea di quanta strada ha percorso (anche se ci sono passaggi intermedi, per la selezione, la conservazione e l’imballaggio). Tutti questi spostamenti ci permettono di approvvigionare il cibo dove costa meno, e sono possibili perché abbiamo a disposizione combustibili fossili a basso prezzo. Ma quanto può durare questa situazione? E come si presenta il futuro? Non sembra facile fare una previsione, perciò per ora si analizza un caso di attualità

La settimana scorsa ho avuto bisogno di comperare dei limoni: un gesto banale, per un prodotto che tutti usiamo spesso. Mio marito andava al supermarket per altre compere, ma non ha preso i limoni perché ha visto che provenivano dall’Argentina. A questo punto ho provato io: abbiamo ormai vicino a casa tutta una serie di supermarket appartenenti a diverse catene (anni fa, al loro posto c’erano tante filiali di banche, che oggi evidentemente non servono più). Sono andata in un supermarket più piccolo, dove ho potuto scegliere tra due confezioni. In una, i limoni provenivano dal Cile, ed erano certificati come “Biologici”. L’altra era confezionata in Italia, ma i limoni provenivano dal sud Africa.
Questo mi ha fatto ricordare che l’Italia è il paese “dove fioriscono i limoni”, come dice Goethe in una sua famosa poesia. Uno dei vantaggi di internet è quello di poter seguire il filo delle associazioni di idee: come possiamo utilizzare la poesia di Goethe per i nostri limoni di oggi? Ho scoperto che la poesia è stata scritta durante il viaggio in Italia, ma non si sa di preciso a che regione si riferisse. La disputa tra gli studiosi – e anche tra i semplici lettori – situa la zona descritta dalla poesia tra il lago di Garda, il lago Maggiore, la Campania e la Sicilia. Tutte zone in cui si coltivano limoni. Io poi aggiungerei anche la Liguria, sia di ponente che di Levante, a cui sono molto affezionata per ragioni familiari, dove i limoni si possono vedere in tutti i giardini, anche se non sono quelli che aveva ammirato Goethe, perché non era passato di lì.

 

I limoni hanno anche la caratteristica di produrre frutti più o meno per tutto l’anno, quindi non ci dovrebbe essere la necessità di procurarseli nell’altro emisfero. E allora? Dovrebbe essere una questione di prezzo, e forse anche di quantità. L’etichetta dei miei limoni provenienti dal SudAfrica corrisponde a una multinazionale della frutta, il cui fondatore, italiano, aveva cominciato importando frutta – soprattutto banane – dall’Eritrea. Adesso è una grande azienda, con un fatturato di quasi 700 milioni di euro e 11mila dipendenti. I limoni che ho comperato per la mia maionese erano di misura piuttosto piccola e con la buccia sottile e lucida. L’etichetta ci rivela che la buccia è trattata con E903, che, sempre grazie alle magie della rete, si scopre essere cera carnauba, un prodotto vegetale. La cera carnauba è costituita da esteri di acidi grassi per un 80-85%, alcoli grassi per un 10-15%, acidi per un 3-6% e idrocarburi in parte variabile tra 1 e 3%. Viene spesso miscelata alla cera d’api e viene utilizzata come agente di rivestimento nelle caramelle lucide colorate, nei dolciumi luminescenti, nelle glasse per dolci, nel cioccolato, nelle gomme da masticare, in snack e prodotti da forno. La si usa sugli agrumi da quando il difenile è proibito nel trattamento della buccia. A quanto pare ne mangiamo molta, ma se non ci fa male ed è naturale… Ma torniamo al viaggio dei nostri limoni e al loro costo.

Non è facile ricostruire il percorso completo, ma un po’ a spanne possiamo dire che i limoni provenienti da fuori Europa viaggiano per almeno 12-13.000 chilometri per arrivare a Milano. Quelli provenienti dalla Sicilia e dalla Spagna devono percorrere circa 1.300 chilometri, mentre da Genova o dal Lago di Garda a Milano la distanza è di circa 130-150 chilometri. Quindi per qualche ragione – supponiamo che sia il prezzo, ma forse anche i quantitativi disponibili o altro che ci sfugge, molti supermercati preferiscono prodotti che hanno viaggiato per 10 o 100 volte di più dei prodotti più vicini ai clienti.
Capire il prezzo è meno facile per chi come me non si intende di economia. Quelli che ho comperato erano 750 grammi e costavano 1,69 €, pari a 2,25 € al chilo. In questi giorni i prezzi all’ingrosso sul mercato di Catania (dati ISMEA) – sono intorno all’euro al kg, quindi forse potremmo aspettarci che i limoni siciliani, oltre a essere probabilmente migliori di quelli cileni, abbiano un costo inferiore o paragonabile.
Per completare questa specie di inchiesta, sono andata a vedere al supermercato più vicino a casa, prendendo nota dell’offerta disponibile: limoni dal Sud Africa: 2,15€/kg  – limoni Italia: 3,48/Kg – limoni Bio Italia: 3,98/kg – lime dal Brasile: 3,98/kg.
Quindi il costo dei limoni italiani, anche se la provenienza non era specificata, era maggiore di quello dei sudafricani!

I limoni possono essere acquistati anche on line. Quali sono i prezzi al pubblico? Diamo un’occhiata, ricordando però che i siti sono moltissimi e si trovano dati di tutti i tipi. Su Amazon, per esempio, i limoni di Sorrento sono offerti a 10€/kg. In un sito siciliano invece, troviamo i limoni a 2,5€/kg, a condizione di ordinarne una cassetta da 9 chili. Una azienda produttrice ligure chiede 4€/kg. In tutti i siti naturalmente occorre considerare le spese di spedizione, e sicuramente la spedizione incide molto se si ordina soltanto un chilo di frutti.
Tutto questo ci potrebbe portare a considerazioni interessanti sull’economia e sul peso che il costo dei combustibili può avere sui prezzi.
Vale la pena però di ricordare anche altri aspetti diversi della questione. Noi in Italia siamo fortunati perché il nostro clima e le caratteristiche del nostro territorio ci permettono di ottenere molti prodotti diversi e gustosi a seconda delle stagioni. Un inglese per esempio, se volesse consumare solo prodotti locali, si troverebbe davanti a una scelta piuttosto difficile: o rinunciare a tutto quello che nel loro paese semplicemente non cresce, oppure consumare una grande quantità di energia per coltivazioni in serra. In certi casi, l’energia necessaria per il trasporto potrebbe anche essere inferiore a quella necessaria per la coltivazione in serra.
Poi si deve considerare l’impatto dei metodi di coltivazione: spesso i prodotti agricoli vengono coltivati utilizzando macchine alimentate con combustibili fossili (e questo vale anche per i prodotti biologici). Occorre energia anche per produrre i fertilizzanti oppure i trattamenti che servono per sconfiggere gli insetti nocivi… Insomma, secondo alcuni studiosi potrebbe essere meno dannoso per l’ambiente coltivare, ad esempio, i fagiolini in Kenia, con sistemi di coltivazione ecologica e mano d’opera locale, per poi trasportarli da noi in aereo. Chi avrà ragione? Intanto consiglio di leggere un interessante articolo: si tratta del rapporto “La sostenibilità ambientale ed economica delle filiere biologiche”, cura di Biancamaria Torquati, finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. In questo rapporto si fa un’analisi attraverso le ‘food miles’ e la catena del valore, considerando diverse filiere alimentari. Non è possibile riassumere qui in poche righe i risultati, ma alla fine si scopre che la sostenibilità ambientale più elevata corrisponde, come ci aspettavamo, al rapporto diretto produttore-consumatore che si ottiene attraverso i Gruppi di Acquisto che agiscono in zone ristrette. Forse è un po’ meno intuitivo il fatto che la grande distribuzione risulta alla fine più rispettosa dell’ambiente rispetto ai cosiddetti “supermercati bio”. Questo perché la grande distribuzione ha una organizzazione logistica molto efficiente che i supermercati più piccoli non riescono ad ottenere. Ovviamente, il rapporto citato è una piccola parte della letteratura – tantissima – che si trova in rete. Occorre studiare per capire, e forse una testa da sola non può farcela. Anche soltanto limitarsi a stimare le emissioni di CO2 può essere estremamente complicato. Non basta considerare dove coltiviamo i nostri prodotti, dove li trasportiamo e con che mezzi; è importante anche in che modo vengono coltivati, come vengono conservati e preparati. Soil Association, nota associazione inglese che promuove i prodotti biologici, ha deciso per esempio di vendere il cibo biologico anche nei casi in cui viene da lontano, ed è trasportato in aereo, purché rispetti alcuni standard etici ben precisi. E questo non mi trova d’accordo. Perchè? Perché mette gli interessi del singolo, e in particolare dell’abitante della parte ricca del mondo, davanti a quelli dell’ambiente e delle popolazioni dei territori meno sviluppati.

Giovanna Gabetta:
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