Ogni volta che si parla di medici che mancano viene tirato in ballo come causa del problema il numero chiuso a Medicina. In un momento in cui i buchi di organico sono la vera emergenza della Sanità, perché si ripercuotono sulle liste d’attesa e non ci assicurano di essere assistiti in fretta e al meglio, ritorna l’eterna domanda: perché non aboliamo il numero chiuso a Medicina? Che sia meglio eliminarlo è convinto anche il vicepremier Matteo Salvini che in campagna elettorale ha ribadito: «Cancelliamolo per sopperire alla carenza di medici» (qui). È una posizione che rispecchia il pensiero della maggior parte degli studenti che si scontrano con lo sbarramento, considerato anche un ostacolo alle aspettative sul proprio futuro. Vediamo come stanno davvero le cose.
Perché nasce il numero chiuso
Il numero chiuso viene sancito dalla legge 264 del 1999 dell’allora ministro dell’Istruzione Ortensio Zecchino che lega il numero di posti a Medicina alla disponibilità di aule, docenti, laboratori, possibilità di tirocini e partecipazione degli studenti alle attività formative obbligatorie. Le ragioni della scelta sono principalmente due: garantire ai futuri medici la formazione migliore possibile – che deve fare i conti con la disponibilità di docenti che insegnano e di pazienti da visitare – e non sfornare troppi disoccupati. Così ogni anno gli atenei comunicano al ministero dell’Università il numero di posti a disposizione. In contemporanea la Conferenza Stato-Regioni raccoglie i dati sul fabbisogno di medici che saranno pronti a entrare in ospedale tra 10 anni. A questo punto viene aperto un «tavolo di programma» tra il ministero e la Conferenza Stato-Regioni in cui vengono definiti i posti ateneo per ateneo.
Candidati e numero di posti
Com’è andata negli ultimi 10 anni nelle 42 università pubbliche e nelle 7 private che via via sono nate? Fino al 2018 su 60 mila candidati ne entra solo 1 su 7 che vuol dire su per giù il 15%. Dal 2019 entra un candidato su 4, ossia il 25%, perché i posti aumentano da 9 mila circa a 14.740 nel 2022. La Statale di Milano passa da 410 posti nel 2013 a 515 nel 2022; la Sapienza e Tor Vergata di Roma rispettivamente da 908 a 1.156 e da 240 a 290; Bologna da 400 a 614; Firenze da 330 a 378; la Federico II di Napoli da 413 a 623. Se invece non ci fosse stato il numero chiuso e se oggi venisse eliminato, la situazione sarebbe differente e potremmo avere i medici che servono? No. Ecco perché.
Imbuto formativo
Il problema non è il numero chiuso a Medicina, ma quel che succede dopo. Tra il 2013 e il 2018 su 51.369 neolaureati in Medicina solo 43.748 hanno potuto completare il percorso di studi entrando nelle Scuole di specializzazione (36.733) oppure frequentando i corsi di formazione triennali per medici di famiglia (7.015): vuol dire che almeno 7.621 non hanno avuto la possibilità di fare né uno né l’altro.
La formazione di uno specialista costa allo Stato dai 102 mila ai 128 mila euro e pesa sui bilanci del momento. In un documento della Conferenza Stato-Regioni del 21 giugno 2018 si legge: «Per l’anno accademico 2017-2018 il fabbisogno stimato di medici è pari a 8.569 unità, mentre le risorse disponibili per il medesimo anno consentono il finanziamento a carico del bilancio dello Stato di 6.200 contratti di formazione specialistica, con una differenza di 2.369 unità. Il significativo scostamento negativo tra le esigenze di medici e quello che può essere concretamente soddisfatto con le risorse statali si è registrato anche negli anni accademici precedenti. Il fenomeno è destinato a produrre una carenza di medici specializzati per il Ssn». Fin qui, dunque, il problema è il cosiddetto «imbuto formativo».
Programmazione carente
Poi le cose cambiano: come abbiamo visto dal 2019 i rettori degli atenei si impegnano a garantire più posti a Medicina (4.961 in più nel 2022 rispetto al 2018, ossia il 50% in più). E contemporaneamente aumentano anche i posti nelle Scuole di specialità (7.091 in più tra il 2018 e il 2022, ossia più che raddoppiati) e nei corsi triennali per medici di famiglia (1.313 in più dal 2018 al 2022, più 60%). Ma, come abbiamo già denunciato in un recente Dataroom (qui), davanti alla possibilità di ampia scelta, i posti nelle Specialità che più servono non vengono coperti: al 7 novembre il 58% dei posti in Medicina d’Emergenza-Urgenza è scoperto, in Anestesia e Rianimazione il 21,5%; in Radioterapia il 73,5%. Adesso, dunque, uno dei problemi principali è riuscire a far sì che chi fa programmazione (il ministero della Salute) e chi bandisce i posti nelle scuole di specializzazione (il Miur) bilanci l’offerta riducendo per esempio i posti nelle specialità che non servono e che sono spesso le più richieste. È urgente calcolare correttamente quanti medici e per quali specialità serviranno tra 4-5 anni che è il tempo necessario per formare nuovi specialisti.
Selezione di qualità
Eliminare il numero chiuso, quindi, non risolverebbe il problema della mancanza di medici. Resta, però, la rabbia degli studenti che non riescono a superare il test d’ingresso e che vedono infranto il loro sogno di entrare in corsia. È questo il motivo per cui è indispensabile che i criteri di selezione di chi entra a Medicina siano i migliori possibili: il test d’ingresso non può essere una lotteria. Nel 1999 la prova è di 90 domande, poi dal 2000 al 2012 di 80 e dal 2013 a oggi di 60. Ogni risposta corretta vale 1,5 punti, quelle sbagliate -0,4, quelle in bianco 0. Ma negli anni non sono mancate domande ridicole che nulla hanno a che fare con l’individuazione delle capacità che servono per diventare un buon medico.
Come cambia il test d’ingresso
Dal 2023 il test cambia ancora su decisione del governo Draghi: il decreto 1107 del 24 settembre 2022 (qui) raddoppia le sessioni di prova – che saranno due all’anno e non più una – e si terranno ad aprile e luglio 2023. In più potrà partecipare non solo chi sta facendo la maturità o l’ha già fatta, ma tutti gli iscritti all’ultimo o penultimo anno delle superiori che potranno inserire il loro miglior punteggio nella piattaforma dove sarà stilata la graduatoria.