Storia, modernità, intuizione e perfino grandi firme – degli stilisti – e invidiabili forme – delle bellissime che hanno posato come modelle – non sono stati sufficienti a salvare Postalmarket. A decretare il fallimento definitivo dello storico catalogo di vendite per corrispondenza è stato il tribunale di Udine, su istanza dell’amministratore straordinario del Gruppo Bernardi che aveva rilevato l’azienda milanese nel 2003, salvo chiuderla nel 2007.
Leader del settore tra gli anni Ottanta e Novanta, l’azienda arrivò ad avere 1400 dipendenti, 45mila spedizioni giornaliere e un fatturato di 600 milioni di lire. Numeri da record per l’epoca, che hanno misurato il mercato e il suo potenziale, ingolosendo i possibili futuri – ora più che presenti – autori.
Così Postalmarket è rimasto schiacciato dal web. I perché non sono difficili da individuare. Alle imprese, la virtualità della rete assicura una platea senza confini, costi di gestione ridotti e altrettanto drastiche riduzioni di tempo. Agli utenti garantisce velocità, offerta pressoché illimitata, proposte internazionali, risparmio e divertimento. Senza dimenticare gli artigiani – e quanti si sono scoperti tali – che, grazie al web, rimanendo a studio o in casa, hanno aperto boutique digitali attive in tutto il mondo, rilanciando la moda dell’hand made.
Il primo Paese per vendite on line, nel 2014, è stato il Regno Unito con 122 miliardi di euro, seguito da Germania e Francia, rispettivamente con 70 e 57miliardi di euro. Cifre da capogiro per l’Italia che regalano un’importante prospettiva al web-business.
Un’evoluzione scritta nella storia del mercato, dunque. Il fattore di forza che ha trasformato Postalmarket in una consuetudine era il rito dell’attesa, oggi primo “peso” di un sistema a caccia di soluzioni sempre più veloci. Non solo. Il catalogo era testimone e metro di un’Italia che, dal Nord al Sud, si univa nello shopping, specchiandosi nella stesse vetrine di quelle pagine patinate e nelle ambizioni che sapevano creare.