Il caso della Underwood, che contribuì alla grande crisi Olivetti degli anni 60 e 70, ha ispirato un paragone con l’operazione Fiat-Chrysler e un articolo di Federico Barbiellini Amidei e Andrea Goldstein sul Sole 24 Ore.
L’articolo ricorda una data, inizio ottobre 1959, quando “l’Olivetti (con un fatturato quell’anno di 36 milioni di dollari) rilevò il 35% delle azioni dell’Underwood, grande più del doppio. Un accordo salutato con entusiasmo da Fortune, perché “creare un’impresa multinazionale è la sola risposta decisa al nazionalismo e al problema di essere considerati stranieri”, così come da Il Tasto, la rivista della Fiom. Italo Calvino scriveva a Giulio e Renata Einaudi da New York che “ora la popolarità nelle élite che è già forte diventerà (senza più l’ostacolo del nome italiano e senza più impacci doganali) una popolarità di massa”. Nessuno protestò perché l’Olivetti era italiana – magari perché il Connecticut è lo stato americano in cui il numero di cittadini d’origine italiana è proporzionalmente il più elevato.
Quell’Olivetti, impiantata in Europa e America Latina, era una società apprezzatissima Oltreoceano. Lo testimoniano la mostra al Moma di New York nel 1952, il riconoscimento dell’Illinois Institute of Technology alla Lettera 22 di Marcello Nizzoli come “best-designed product of modern times”, lo showroom sulla Fifth Avenue, il centro di ricerca elettronica di New Canaan, in Connecticut, in cui lavoravano giovani scienziati italiani formatisi nelle università americane. In più Adriano era amico di David Lilienthal, artefice della mitica Tennessee Valley Authority voluta da Roosevelt per sconfiggere la Grande Depressione, ed era in contatto con i principali politici americani dell’epoca.
Tutto ciò non fu sufficiente per “tirare su la baracca della Underwood”, come auspicava Calvino. La società di Hartford andava a rotoli ed era la pallida copia di quel national champion di inizio ’900. Ora che era il turno dell’Olivetti di trasferire la sua tecnologia, di prodotto e di processo, verso la società americana, per permetterle di tenere testa alla concorrenza con un’offerta più moderna, le risorse a Ivrea iniziarono a rivelarsi insufficienti. A complicare le cose venne anche la scomparsa improvvisa di Adriano, ma non è detto che la sua leadership sarebbe stata sufficiente a sanare la situazione.
Nel 1964 fu necessario l’intervento di Mediobanca e – di fronte al dilemma America o grande elettronica – la scure cadde su quest’ultima. Si discute ancora se fu la decisione giusta, non solo per la società, ma anche per il Paese. Qui va notato che la situazione dell’Underwood, integrata in Olivetti, iniziò a migliorare – tanto che quando, quasi vent’anni dopo, la multinazionale italiana fu di nuovo pioniera con l’M20 – il suo primo pc – molto del lavoro necessario per svilupparlo venne svolto all’Advanced Technology Center (Atc) di Cupertino e all’Olivetti Research Center di Menlo Park sulla West Coast.
Oggidì la situazione è differente, come mostrano i risultati ottenuti dal 5 maggio 2009, quando la casa torinese ha iniziato la ristrutturazione della Chrysler. Nondimeno, alcune considerazioni che emergono nel ripercorrere la vicenda Olivetti-Underwood mantengono la loro valenza. Ci volle molto tempo prima che il management italiano, tra cui spiccano individualità come Gianluigi Gabetti e Alberto Vitale (che avrebbero successivamente brillato in altre funzioni), riuscisse a comprendere la necessità di adattare tutto il modello Olivetti (produzione, vendite, formazione, relazioni industriali) al contesto americano. Questo significò dare crescente autonomia decisionale alla filiale americana, anche quando la sua sede venne trasferita ancora più lontano, in California”.
L’articolo conclude con questa lapidaria frase:
La sfida per Fiat-Chrysler è essere americani a Detroit, italiani a Torino, per accelerare sull’innovazione su ambedue le sponde dell’Atlantico.